La notte di fuoco di Eric-Emmanuel Schmitt

01 Dicembre 2016

Nell’ultimo incontro di lettura condivisa s’è dibattuto su un testo dal contenuto particolare: La notte di fuoco, testimonianza di un’esperienza personale mistica di Eric-Emmanuel Schmitt, l’autore. Quest’esperienza, avvenuta venticinque anni fa,   determina un cambiamento di indirizzo nella sua vita.

Lineare, scorrevole e poetica la scrittura, con le descrizioni  d’un paesaggio -il deserto africano- , che sempre affascina. Il libro è ricco   di disquisizioni filosofiche e teologiche, di pennellate caratteriali ben riuscite -gli occasionali   compagni di viaggio-. E’il racconto di un viaggio, infatti, inizialmente un viaggio di lavoro – Schmitt  è lo sceneggiatore di un film su Charles De Faucould, e accompagna Gerald  -il regista- nei luoghi vissuti dal religioso: l’Algeria e il deserto del Sahara. Parte dalla Francia, ma quando giunge a Tamanrasset, il giovane Eric prova un’istantanea attrazione per quei luoghi, per i suoi  abitanti e  poi,  più tardi, per Abayghur la guida tuareg  dal nobile portamento che accompagna il suo gruppo escursionista attraverso il deserto.   Questo viaggio va a inserirsi  in un momento   particolare della vita di Eric, egli  ha sempre avuto difficoltà a riconoscersi,  ha dubbi sulla professione intrapresa –insegna filosofia all’Università – e ora ha la sensazione di trovarsi all'”incrocio di sé stesso”,  non sa quale sia esattamente la strada giusta per lui. Il viaggio ha dunque anche una motivazione inconscia  che si svela  nel  martellante ed improvviso pensiero che irrompe, “da qualche parte mi attende il mio vero volto”, e l’ accompagna  marciando assieme a lui nel deserto. E proprio in questo percorso faticoso,  immerso in una  bellezza diurna disadorna e in notti stellate che si abbattono improvvise  sulla testa e negli occhi di ammiratori incantati, che Eric comincia a “nascere a sé stesso“. Il cammino gli riporta lo stupore gioioso, “la meraviglia del bimbo”. Quel   pane che vien cotto sotto la sabbia,  bere perle d’acqua dalla polla nascosta, osservare, sentire la semplice  e feconda essenzialità delle cose e della vita: via gli   orpelli  che ci fanno portare  “quei sassi sulle spalle” nel nostro ammantato mondo d’Occidente. L’accorgersi che a lungo possa durare l’amore –il tuareg e la pastorella- se aiutato da pudore e lentezza, loro ampliano e riempiono il tempo d’immagini poetiche; qui l’amore non è consumato nella fretta, da una fretta vuota frenesia. S’incontra un silenzio potente che amplifica tutti i rumori,ma  permette di ascoltarsi profondamente e che  le preghiere, senza ostacoli, arrivino sin  dove devono arrivare; nel deserto poi si è sempre  al centro del mondo si può camminare a lungo ma nel fermarsi  si è sempre al centro  di un solo, esteso vuoto spazio,  e che dire del luminosissimo notturno cielo che  induce emozione all’interno del cuore…. e  in questo deserto “tu specchi” i tuoi difetti e puoi conoscerti. Ed Eric comprende  l’inganno del cercare perché nel viaggio si deve accogliere l’ignoto con la sua “infinità dei possibili”.

Diversi sono i  suoi compagni di viaggio! Thomas, l’astronomo,   coglie solo l’estetica nel cielo stellato; il geologo Jean Pierre, nel deserto, cerca solo  di mettere a “confronto” ciò che sa con ciò che trova;  per la coppia Marc e Martine  quel viaggio, la  “spedizione  si riduce a un percorso ad ostacoli” da superare e poi raccontare. Nessuno è cambiato,  non vi è apertura in loro, neppure nella buona cattolica Ségolène perché ha già le sue certezze. Essi mancano di quello  spiraglio che forse  permette all’agnostico  Eric di ricevere il  grandissimo dono, quando chiuso sotto la coltre di sabbia che lo ripara dal gelido vento notturno   – s’è perso scendendo dal monte Tahat -, vive  anche lui la Pascaliana  “notte di fuoco”, quell’esperienza che travalica la corporeità e porta  alla contemplazione beata e poi a un’unione gioiosa, dissolvente e impregnante  nell’energia- fuoco,  l’ Assoluto  cui “non sa dare altro nome che Dio”. E’ un esperienza mistica che lo trasforma,  egli ora crede, ma non dirà della sua esperienza, solo oggi in questo libro  la racconta. Ma è diventato scrittore e scrive  “da un luogo della sua anima ha visto la luce e la vede ancora”  che ha reso la vita armonica e fiduciosa; quell’esperienza legittima l’ amore per la vita e la  pace nel cuore portandolo a una fede, che nessuna  logica razionale  può confermare,  ma di cui lui  ora da testimonianza.

Nel dibattito  alcuni lettori hanno accostato questo testo a letture precedenti,…..e venne chiamata due  cuori di Marlò Morgan riscontrando una notevole differenza sul piano del respiro autentico,  poi con il Diario… di Etty Hillesum in quanto la personale esperienza dei due autori arriva a un Dio che non ha nome. Alcuni lettori si dicono stimolati ad approfondire con nuove riletture questo testo.Tutti confermano  la piacevolezza  della scrittura, e poi  s’è detto dell’importanza che ha  la natura stessa del deserto, il suo silenzio nel  facilitare la riflessione interiore e spirituale dell’uomo. Si è anche notato  quanto  il racconto  sin dall’inizio vada velatamente costruendosi indirizzandoci  verso il focus spirituale dell’esperienza mistica. E’ piaciuto molto anche a noi Abayghur e la bella e singolare amicizia  che nasce comunicando parole in lingue diverse. Bella  la pragmatica logica di Abayghur il quale considera assurda la faticosa ascesa degli escursionisti al monte Tahat: non v’è nulla di utile lì sopra!  Il voler sapere se nel suo mondo occidentale Eric avesse a disposizione il suo deserto per il necessario raccoglimento dell’uomo;  Eric poi ci fa notare il bel modo di pregare di Abayghur  – inginocchiato e prono sul tappetino nel deserto emanava umiltà e potenza insieme perchè “mostrava la sua imperfezione  umile nello stesso tempo intimava  a Dio di dargli attenzione”. Sempre in Abayghur la finezza psicologica che percependo  l’angoscia notturna di Eric lo aiuta assegnandogli l’incarico di sorvegliare e proteggere i compagni dai serpenti, incanalando l’angoscia verso  “un oggetto preciso  di cui si ha solo paura”; s’è  apprezzato anche il  silenzio di Eric,  quel non confidare l’ esperienza  mistica ai compagni di viaggio, il pudore, la   consapevolezza della difficoltà di credergli e il   tempo per sedimentare  e sperimentare il dono in una nuova vita. Molto  interessante, poi,  il dibattito teologico e filosofico tra l’agnostico filosofo Eric  per il quale ”Dio era un punto interrogativo” e  Ségolène, cattolica,  manchevole di qualsiasi dubbio; le sue riflessioni lo conducono ad affermare l’impossibilità razionale di dire  di Dio  “Io lo so” perché quest’ affermazione  “oltrepassa il potere della ragione….. può condurre al fanatico integralismo”.E’ pericoloso affermarlo perché  “quello che so non è quello che credo” . La fede è una questione di cuore, con esso la senti ma se si parla al mondo con la ragione si può parlare  di  ”agnostici credenti, agnostici atei e agnostici indifferenti”  comunque il “mistero rimane”. Eric  è fortunato, ha avuto la prova , che è  dono di Dio, non sa perché ma da allora sente, malgrado tutto, che c’è armonia, benevolenza  e una finalità felice. Ha fede e ora egli pensa sia arrivato il momento, attraverso questo libro,  di porgere la sua testimonianza.

Autore

Eric-Emmanuel Schmitt è nato in Francia nel 1960.

Penna prolifica come autore teatrale, ha scritto numerose opere, rappresentate in tutto  il mondo. I suoi romanzi sono tradotti in molte lingue.

La notte di fuoco è stato pubblicato nel 2016.


Genere: romanzo