La masseria delle allodole di Antonia Arslan

08 Febbraio 2018

La  masseria delle allodole, pubblicato nel 2004, è l’opera scelta per l’incontro di febbraio ed è il primo libro che parla del genocidio  armeno –  minoranza etnica all’interno del morente impero turco. Tutto avvenne  nel 1915 – vi morì un milione e mezzo di persone. Massacro ideato dal nuovo governo e attuato dai Giovani Turchi nazionalisti inneggianti a una nuova Grande Turchia. L’autrice del libro  è Antonia Arslan,  docente di letteratura a Padova, la cui origine armena porta,  dopo una lunga gestazione, a scrivere  quest’ antica tragedia familiare  e con essa a disvelare quella del popolo Armeno. Con l’aiuto di  una scrittura ricca, quasi fiabesca, narra una storia nutrita  di verità e immaginativa ricostruzione, aprendo  ai nostri sensi un luogo ameno, lontano,  abitato in serenità e agio  dalla  benestante e numerosa famiglia del bonario Sempad. Egli era diventato capofamiglia sostituendo Yervant,  fratello uterino e primogenito che giovanissimo era andato a studiare a Venezia presso i Padri Mechitaristi,  custodi  antichi  della cultura armena, e che non era più tornato dall’Occidente. In  realtà perché  era fuggito dal grande disaccordo con la matrigna. Ora  stimato professore di medicina vive vicino a Venezia  con  la famiglia italiana.  La nobile moglie  e  due figli che di armeno portano solo il nome.  Ma quando il “patriarca” suo padre muore,  egli permette alla nostalgia di accettare l’invito dio Serpa di   tornare a visitare con la famiglia  il suo lontano  paese. Grandi i  preparativi d’ ambo le parti: Yervant con la sua “Isotta Fraschini“, orgoglioso di mostrare  la ricchezza raggiunta e, in stesso, la dignità “occidentale”  conseguita. Il fratello  invece restaura e rinnova la bella casa di campagna, dove si  prepara una gioiosa accoglienza. Purtroppo è il  maggio del 1915 e la guerra ha inizio su fronti avversi, il viaggio ne è impedito  e  nello  stesso tempo  la tragedia armena  e della famiglia di Sempad comincia. La pulizia etnica di quella minoranza è stata decisa.  Il governo turco  in modo subdolo e  silenzioso fa  trucidare prima  i  maschi colti e abbienti poi va a eliminare tutti i maschi,  infine un’atroce e lenta tabula rasa per: donne ,  vecchi e  bambini, che da ogni parte del paese dovranno confluire nella strada che porta al deserto poi  continuare il cammino  fino a morire. Fame, sete , sfinimento e atrocità indicibili  faranno ricoprire quell’arido terreno di tante  ossa che non sono  più persone. È stato questo l’olocausto Armeno mai riconosciuto dal paese che l’ha perpetrato tant’è che ancor  oggi in Turchia  chi ne parla è perseguito penalmente; ma non è riconosciuto neppure da altri tra cui uno che di vergogna dovrebbe arrossire: Israele!.

Andiamo però nella piccola città da Sempad  farmacista benvoluto il  “custode della salute” animo ingenuo che  non contempla “la doppiezza, né l’inganno” e riposti i ricordi  di eccidi  efferati avvenuti solo pochi decenni prima è convinto che con il nuovo governo le cose per il suo popolo  miglioreranno.  Ora ci sono deputati Ameni in Parlamento e uno di essi gioca abitualmente  a tric-trac  con il Ministro dell’interno! Quello  stesso che ne   ordinerà poi lo sterminio. Ci sono voci che sussurrano un pericolo, ma egli  pensa d’accomodare  facilmente tutto con la solita mancia al  suo amico colonnello, il comandante del  reggimento di stanza in  città. Per precauzione ad ogni modo  non si presenterà in Prefettura  com’è stato ordinato a tutti i maschi armeni, ma va con alcuni amici alla Masseria delle allodole, dove poi con un’improvvisata –in realtà dettata dalla  preoccupazione- lo raggiungerà la moglie Shushanig con il resto dei familiari. E sarà proprio in quel luogo  che   in modo feroce e  vergognoso, verranno uccisi tutti i maschi presenti e  la testa di Sempad  sarà nella gonna di Shushanig  e un  “fiore rosso sul muro” lo disegna la piccola testa di un bimbo  e un’orribile regalo sarà  nella bocca di Krikor il  fraterno amico. Solo il piccolo Buba si salverà perché casualmente veste con abiti di bimba.  Poi ciò che resta della piccola città armena: donne vecchi e bambini   s’incammineranno verso una  destinazione ignota., costretti  tutti al  Grande viaggio, quello del Grande Male. I  curdi nelle scorrerie rapinano –ne hanno il permesso- chi li scorta, i zaptiè -ex galeotti-–stuprano e giocano uccidendo, ogni bestialità ha licenza e  poi la fame, la sete –nessuno può dare aiuto perché ci sono pene severissime. Il sole e le pietre trasformeranno quest’umanità in scheletri cenciosi già fantasmi nell’incontrare la morte. Eppure, con  gioielli cuciti nel vestito e una forza d’animo che arriva fino  al sacrificio della vita, le donne proteggono  i piccoli. I figli di Sempad ce la faranno perché  Shushanig ha incredibili e riconoscenti amici turchi: la lamentatrice funebre, il mendicante e il prete ortodosso, che tra espedienti e rischi riescono  ad appoggiarla  sino ad Aleppo, dove con una rocambolesca fuga e il sacrificio di Azniv, troveranno rifugio assieme alla madre presso lo zio Zareh. S’ imbarcheranno un anno dopo per Venezia, aiutati dai Djelal, l’innamorato turco della povera ”rosa di maggio” Azniv, ma ,ora che i bimbi sono al sicuro, Shushanig abbandonerà la vita e  solo i quattro bambini  saranno accolti dallo zio Yervant..

Una lettura importante questa perché  informa, tra i lettori molti conoscevano  poco il dramma Armeno, e fa riflettere e temere perché l’orrore che  è stato  compiuto -e sovente  ancora si ripete-  mostra, la radicata capacità nell’uomo di essere atrocemente malvagio.

I  lettori hanno amato anche quest’opera anche per la  scrittura poeticamente ridondante, alcuni ne hanno contestato invece  proprio lo stile, convinti dell’inautenticità poetica in una prosa in cui l’emozione forte del tragico non avvince e tiene a distanza. A difesa dell’autrice si può ricordare  che la sua non è stata esperienza vissuta in prima persona  e che il   tono del suo  sentire emozioni sia eredità derivata dall’essere in parte figlia   del quel “mite e fantasioso” popolo armeno. Si è poi   dibattuta proprio  quest’aspetto “la passività”,  la rassegnazione armena con cui hanno accettato l’annientamento. Avevano pur subito, come minoranza cristiana e  in anni abbastanza recenti, gravissimi eccidi e  i segni premonitori?  Reali e percepiti in quel “sentivo”  più volte menzionati, sapevano e subito scordavano, come mai ? Fatalismo oppure il quotidiano di persone pacifiche non lascia cogliere  future connessioni pericolose?  “Se ci sei dentro, non vedi” afferma una lettrice, non tutti hanno lo spettro ampio che permette misurazioni lontane. Abbiamo ricordato Etty Hillesum, la sua forza che sembra passività, ma lei  scelse il sacrificio sebbene sapesse, già aveva colto i segni della tragedia ebraica ma non ne era fuggita. Il colonnello  invece  non comprende in tempo  il cambiamento messo in atto dai Giovani turchi -che comunque non condividerebbe – non ha potuto far niente per Sempad se non dare a quei morti – lì alla Masseria ancora persone- una sepoltura dignitosa. Nelle donne si è riconosciuta la  capacità pragmatica, l’organizzazione comunitaria e la coraggiosa resistenza per salvare i bambini- e la a generosità di Azniv la  “dolce sorella ” tornata innocente dall’essersi offerta per il pane ai bimbi  e che per loro, combattendo con il canto, fiera dona la vita. Generosità anche nello strampalato terzetto turco: nella laminatrice Ismene, nella spia Nazim,  nel prete  Isacco. Riconoscenza, rimorso, vergogna  li ha portati a soccorrere a oltranza la rimanente famiglia di Sempad. Ma è  stato il comportamento e la personalità di Nazim, la spia-mendicante,  incuriosire:  lui precipita il massacro alla Masseria e poi si sente un indegno – Sempad era sempre stato buono con lui!- Qualcuno suggerisce che i rischi e i pericoli corsi da quest’uomo l’abbiano portato a un riscatto  trasformandolo in un uomo nuovo, altri non concordano aveva una colpa da riequilibrare e  c’è un codice d’onore anche nella Confraternita dei mendicanti ma lui rimarrà sempre solo lo stesso, un  mendicante ambiguo . La Confraternita si rende subito conto che  la fine della comunità armena , da altri definita “inferiore e imbelle” avrebbe comportato invece la  perdita di umanità generosa con tutti. E’ questi, infatti,  un   piccolo antichissimo popolo cristiano, il primo a professare liberamente questo culto già dall’anno 301. Un popolo colto.  con un proprio alfabeto , amante della scrittura  e con il culto del libro , posto a cavallo tra l’Oriente e l’Occidente “incrocio di civiltà” ma volto all’occidente. Progressista, dove le donne studiavano e all’occasione  decidevano … e poi sapevano  anche portare i cappellini di Parigi!, godevano pertanto di una libertà che alle donne turche non era concessa.

Nell’altro fronte che ne è stato di  Yervant, il fratello italiano autorevole e orgoglioso? Non c’è più nessun paese e famiglia da cui tornare: l’Isotta Fraschini in garage,  ora…le spalle spioventi,   un silenzio doloroso e  solitudine  nel cuore per molti anni  sino a che, aprendosi alla nipotina Antonia,  riuscirà a parlare del suo piccolo,  lontano, martoriato  paese e lei, divenuta  donna matura,  consegnerà  quella storia  alla  scrittura.

 

Autore

Antonia Arslan è scrittrice e saggista italiana di origine armena.


Genere: romanzo