07 Novembre 2019
La guerra non ha volto di donna, della scrittrice premio Nobel Svetlana Aleksievic, è un libro intenso, doloroso e diverso. Dopo l’esplicativo e splendido prologo dell’autrice ci sono pagine di ascoltata verità, tenute a lungo racchiuse entro scrigni di donne. Donne sovietiche, formate, modellate dal socialismo staliniano e attivamente presenti nella Guerra Vittoriosa contro la Germania nazista (II Guerra Mondiale). Più di un milione di donne, delle quali molte volontarie, sono accorse a difendere quella Patria che oggi più non esiste. Svetlana Aleksievic le ha cercate e per anni, con un’attenta umanità che ispira fiducia, è riuscita ad accoglierne le voci, ascoltando una realtà di fatti lontani, mescolati e intrisi dei sentimenti allora vissuti. Questa la Storia che vuole far conoscere: un grande puzzle fatto di vita testimoniata, cui lei da il nome di letteratura perché “c’è poesia e letteratura nella donna che narra”. La storia di guerra è diversa da quella che l’uomo racconta, sebbene è al suono di parole maschili che giovanissime adolescenti – figlie di una laica fede per la Patria “La Madre Patria ti chiama” – hanno chiesto il fucile, hanno combattuto e ucciso. Poi le tante medaglie riposte, il lungo silenzio e ora nei loro racconti non nomi di battaglie o di eroi ma lacrime e vita di allora nel pensiero di oggi. “Io ricordo solo quello che ho vissuto. La cosa più terribile è la morte”. La guerra uccide e le donne non la amano, non “curano le pistole” ma curano la vita; per i loro corpi femminili la guerra è lotta faticosa (tante ricordano stupite l’immane sforzo fisico e psichico che sono state al tempo capaci di sostenere), ma l’ aspetto che rende loro “più atroce” la guerra è la capacità di accogliere penetranti percezioni, sfumature di sentimento sottili. Questa è un’empatia che soffre, ma che sa anche cogliere “l’odore, il calore, il sapore di dettagli che sostanziano l’esistenza”, nonostante la devastazione le donne riescono ancora a ricreare le piccole quotidiane familiarità che rendono il vivere più umano accanto alla morte. Piccole cose, gesti femminili “ci si sforzava comunque di restare sé stesse”: ricamare fazzoletti prima dell’ordine di alzarsi in volo; un collettino bianco fatto di garze appuntato alla giubba nel ricevere un riconoscimento al valore militare; il vestito da sposa – in un matrimonio di guerra – uscito dalle bianche bende requisite al nemico, rinunciare ai pochi grammi di zucchero in dotazione per trasformarlo in gel per i capelli ricresciuti dopo la militare rapatura; finalmente la gonna militare ritagliata dai tuttofare sacchi-tenda; dormire una notte intera sedute, e in testa quei i bei cappellini prelevati dalla modisteria tedesca, alla fine della guerra una bella fotografia con le decorazioni al petto ma assolutamente scattata in mezzo all’aiuola fiorita, e morire perché bersaglio è stato il bel fazzoletto rosso posato sul tuo collo cui non hai rinunciato. E infine quella paura comune a tutte e solo femminile di morire in pose sconvenienti, impresentabili anziché posate entro una bara e quindi bella “come una promessa sposa”. Sì perché la bellezza conta, e il riconoscerla anche in brevi luccichii aiuta. Si può protrarre il proprio turno di guardia notturno per veder le stelle e sentire all’aurora il canto degli uccelli, o al risveglio mattutino, prima della paura e della battaglia gioire del cielo terso, dell’aria frizzante e dei colori nei campi, e se verso la fine della guerra ti raggiungono a sorpresa le note di un violino, in te “è come il risvegliarsi da un brutto sogno”. E poi quegli atti, quelli che sorpassano la guerra- non i corpo a corpo che sono prodromi di truculenta bestialità- i gesti di sacrificio estremo e compassione umana:, il tuo bimbo che lasci scivolare nell’acqua perché il suo silenzio salverà molti dei tuoi compagni, sotto il fuoco trasporti un ferito e trovi rifugio di una buca, lì un soldato tedesco ferito più gravemente del tuo e tu, perché non muoia dissanguato, subito lo fasci; e ancora un’altra lei, trascina alternandoli due feriti ustionati e quando si avvede che uno dei due è in realtà un nemico continua comunque fino a portare entrambi in salvo, e c’è quella mezza pagnotta che metti nelle mani di un prigioniero tedesco- un fanciullo in lacrime affamato che incredulo ti guarda e tu “sei felice di non odiare”; piangi per gli inutili sforzi fatti per portare a riva, nel buio, un ferito che si rivela essere un agonizzante storione gigante, ma in quella vicinanza piangi anche per la “sofferenza che accomuna tutti i viventi”. La guerra non ha un volto di donna è questo quello che il titolo del libro mostra.
Un lettore giustamente ribadisce che i sentimenti di compassione e sacrificio non sono appannaggio esclusivo del genere femminile e nel testo troviamo gesti compassionevoli operati da soldati tradizionali, come del resto la guerra può incidere profonda sofferenza nei reduci senza distinzione di genere. Forse tra loro la differenza è nel provare sofferenza suggerita da mezzi toni o chiaroscuri: la si sente semplicemente notando- in un luogo dove s’è combattuto -affiorare una piccola scarpina di bimbo, oppure nel cercare la bellezza nella quotidianità dentro gli orrori che una guerra dispensa. La donna “non ha sfiducia di ciò che è semplice e umano”, lei non “desidera sostituire alla vita la rappresentazione ideale”.
Tante le considerazioni suscitate nei lettori dalle numerosissime testimonianze tra queste un aspetto non appartenente alla guerra ha incuriosito: la scolarità era più alta della nostra, ovviamente scuola di regime a indottrinamento unilaterale. Da noi all’epoca ci si fermava alla 5^ elementare. Una scuola comune a maschi e femmine, che permetteva poi una totale apertura ad ogni attività lavorativa anche alle donne. Finalmente la parità di genere dunque nel comunismo? Non proprio, non del tutto. Nella famiglia, e nella sessualità tra uomo e donna vigeva ancora una diversità di valori. Lo dimostrano anche queste donne che tornate dalla guerra, e moltissime pluridecorate, ricevono insulti e disprezzo e non riconoscenza. Esse portano disonore nelle case, chissà cosa avranno fatto (sessualmente) in promiscuità per tanto tempo assieme agli uomini! Ed è così che una madre prepara un fagotto e allontana la figlia e una suocera versa lacrime di sconforto, tutte e due temono per altre figlie che difficilmente ora troveranno marito. Si è saputo di un delitto gravissimo perpetrato dallo stalinismo comunista. Stalin continuava a non fidarsi del suo popolo – era il lager e la deportazione correttiva ad attendere quanti fossero ritornati dalla prigionia nazista o per quelli rimasti nel territorio occupato dai Nazisti all’inizio della guerra – e pensare che quei territori erano stati facilmente occupati perché Stalin aveva in precedenza soppresso tutti i migliori Ufficiali del suo esercito. C’era un ordine del padre della Sacra Patria impartito all’inizio della guerra, uccidersi, non dovevi cadere prigioniero e questo anche senza avere la pallottola necessaria per farlo, se vivevi eri un traditore dunque la deportazione e il marchio infamante esteso alla tua famiglia per questo vessata e emarginata..
Ben altra persona è Svetlana Aleksievic, lei ha ascoltato e riportato perché della pazzia della guerra se ne abbia orrore, ma prova affetto per queste donne testimoni ormai di un mondo scomparso, che con purezza d’intenti hanno creduto ciecamente all’utopia socialista “convinte che nella vita ci fosse qualcosa di più elevato della loro stessa vita”. Donne che dentro le linde casette tedesche con tendine, tovaglie bianche e tazzine di porcellana fiorita si chiedevano stupite perché quel popolo avesse voluto andare in guerra … avevano già tutto. Stavano bene!…..era per noi difficile capire da dove venisse tutto quell’odio. Il nostro odio nei loro confronti era comprensibile ma il loro? E quante lacrime e cicatrici la guerra ha differentemente lasciato in ognuna di loro, pur nella ricomposta quotidianità del dopo: il colore rosso bandito in ogni cosa, la carne appesa dal macellaio non si compra, assomiglia troppo a….; i giocattoli di guerra mai a figli e nipoti; il silenzio, la voglia di far sapere perché mai più si ripeta…; gli incubi notturni “io ho potuto uccidere un essere umano?”, “io non vedevo gli uomini mentre li uccidevo. Adesso capisco che li uccidevo lo stesso”; il grande senso di colpa che fa credere di doverla giustamente espiare con la punizione di un innocente, un figlio menomato. E, se orrori e dolori subiti ti fanno dire “non si può diventare subito buoni”, altre invece elargiscono amore perché solo quello conta dopo la guerra… tutti mi facevano compassione persino i galli, i cani. Anche adesso non posso sopportare il dolore altrui. Non manca comunque lo sconforto di chi ha veramente creduto, dopo la tragedia di una guerra vissuta in prima persona, nella nuova bontà dell’uomo ed è amaramente deluso: Nulla è cambiato, le guerre vivono ancora. Per questo le donne a Svetlana parlano, vogliono che da qualche parte nel mondo si conservi il loro grido, il loro lamento e lei l’ha accolto e trascritto per aiutare a desistere al fascino oscuro della guerra, a quella folle assurda e orrida ripetitiva tragica commedia, quella che sempre rivela pienamente chi siamo.
“C’è stato un campo di grano, vi cammina una donna e guarda ragazzi distesi, gli occhi al cielo, le divise diverse …belli e eguali”.E “si dispiaceva per gli uni e per gli altri”
L’autrice cerca dentro la guerra di queste donne l’essenza di ciò che è veramente umano.
Autore
Svetlana Aleksievic è una giornalista bielorussa che ha conseguito il Premio Nobel per la Letteratura nel 2015. Per molti anni ha raccontato ai suoi connazionali gli eventi più importanti dell’Unione Sovietica della seconda metà del XX secolo. Su ognuno di questi eventi ha pubblicato anche libri, e le sue opere sono state tradotte in molte lingue, valendole fama internazionale. Esiliata dal suo paese su comando del Presidente Lukasenko, vive a Parigi.
In Italia sono usciti alcuni dei suoi scritti, tra cui Preghiera per Chernobyl (e/o edizioni, 2002, vincitore del Premio Sandro Onofri per il miglior reportage narrativo) sulle vittime della tragedia nucleare, Ragazzi di zinco (e/o edizioni, 2003) sui reduci della guerra in Afghanistan, Incantati dalla morte (e/o edizioni, 2005) sui suicidi in seguito al crollo dell’URSS, Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo (Bompiani, 2014) e Gli ultimi testimoni (Bompiani, 2016).
Nel 2013 vince il Premio Internazionale per la Pace degli editori tedeschi, ed è indicata come una delle favorite all’assegnazione del premio Nobel per la Letteratura, che vince nel 2015 con la seguente motivazione: “for her polyphonic writings, a monument to suffering and courage in our time”.
Nel 2017 esce La guerra non ha un volto di donna. L’epopea delle donne sovietiche nella seconda guerra mondiale