09 Gennaio 2020
Ha più di cent’anni e ben quarantanove ristampe “Una donna”, opera proto-femminista e autobiografica che una giovane lettrice trova ancora attuale sorprendendosene. Un libro che ha di certo stimolato e aiutato molte donne lungo la faticosa, sassosa dell’emancipazione femminile. Lo scrisse una giovane donna, Rina Faccio, sotto lo pseudonimo, divenuto poi importante, di Sibilla Aleramo. E’ la sua storia e narra di un risveglio, mostra lo snodarsi di una coscienza che tenta liberamente la via verso la propria formazione/realizzazione di donna.
La scrittura mostra un poco dell’antica leziosità di linguaggio, il dialogo, che avrebbe dato respiro alla lettura, è scarso; ai lettori la narratrice appare pertanto distante, per qualcuno persino altezzosa nelle prime pagine. Poi tutti sono interessati a questa vita sofferta, alla lenta e dolorosa consapevolezza di una ingiusta disuguaglianza e all’affermazione della propria dignità, per la quale sacrificherà moltissimo sé stessa e suo figlio.
Rina-Sibilla ci racconta di una bimba bella, intelligente e volitiva, la preferita dal padre, uomo affascinante “che aveva sempre ragione”, che parla con lei e che la segue in un’educazione scientifica e libera. Lei lo adora, mentre considera poco la sentimentale mamma, debole e sottomessa. La famiglia, per questioni di lavoro e molto per insofferenza paterna, si trasferisce dal Nord in un paese delle Marche , dove la mamma intristisce ancora di più. L’adolescente Rina, invece, è felice d’aiutare il padre nella contabilità della ditta che questi dirige. Si sente libera e “pensa di non sposarsi mai”. Un fatto grave (il tentativo di suicidio della madre, che finirà poi i suoi giorni al manicomio), porta amari cambiamenti. Il padre, apertamente, ha l’amante e Rina-Sibilla, delusa (egli è cambiato anche nei confronti di lei) trova conforto nelle attenzioni di un giovane collega, che le dice di amarla. E’ così ingenua, ha solo quindici anni, che porta costui a stuprarla, ma lei si convince di amarlo, non lo incolpa, anzi, si sente responsabile e lo sposa. Entra così in una famiglia di levatura sociale più bassa, più rozza, impregnata di pregiudizi locali. Ma lei “mette il cappellino” di giovane sposa e anche se mal sopporta la sessualità del marito, si rassegna, è convinta che nel matrimonio alberghi il sacrificio. Questo è quanto ha visto nel mondo delle donne che la circondano. Aspetta un figlio, ma ha un aborto e poi, finalmente, la grande gioia di un bimbo; un figlio che lei vorrebbe educare nel vero rispetto della natura femminile. Ormai è conscia della piccolezza del marito che, con egoistico affetto, la considera una sua proprietà. Attorno a sé… gelosie. Ama molto il bambino, è il suo conforto, ma si sente ugualmente infelice. Aveva idealizzato l’amore e ora sente di non avere mai realmente amato, s’illude perciò agli sguardi di un giovane uomo e corrisponde ai suoi carteggi, ma nella sola occasione di vicinanza fisica, ecco il prevalere della repulsione: un ricordo e un pensiero “anche costui” e si ritrae. Le conseguenze, però, ci saranno ed sarà una lettera ad innescarle, si eviterà lo scandalo solo grazie all’ipocrisia del gruppo familiare-amicale, ma dentro casa invece impera la violenza (pugni e calci), per cui tenterà anche lei il suicidio. Si riprende, ma è prigioniera, la tengono sottochiave. Nelle pagine di un libro regalatole dal padre, trova la chiave per il suo primo cambiamento interiore, vi trova “una rispondenza, un ordine d’idee che mi si svolgevano fin dall’infanzia”. Questa lettura le offre una visione dell’oppressione e della subalternità che la induce a riflettere sulla disuguaglianza costruita con la menzogna. Comincia a scrivere, aiutata inconsapevolmente dal marito, che “la trovava ormai cosi calma” e che le ha portato dei fogli bianchi, suggerendole di scrivere per ravvedersi. Così lei scriverà (e non smetterà più) quell’articolo, ovviamente osteggiato dal marito, che tratta dell’emancipazione femminile e che una rivista le pubblicherà.
Lei ora scriverà perché la sua sofferenza sterile si trasformi e sia d’aiuto, scrive per “il figlio, per tutti, perché anche l’uomo è incompleto”. E lo sarà fino a quando non comprenderà e accetterà la vera completezza della donna. Per l’uomo la donna è solo moglie e madre e deve “dare figli a chi la possiede”. Quando a seguito del licenziamento del marito si trasferiranno a Roma (lui occupato in un lavoro non gradito, lei in una rivista femminile), Sibilla entrerà in un nuovo mondo e vi si troverà benissimo. Comprende finalmente di essere stata stuprata, fatto che l’ha derubata della giovinezza facendola diventare una mamma-bambina, mentre nessun senso di colpa ha invece sfiorato il marito, che ora è anche meschinamente geloso della sua quasi indipendenza. Purtroppo l’incarico di direttore, offerto al marito dalla vecchia Ditta, profila il ritorno al Paese. Sibilla non vuole seguirlo e chiede di separarsi, ma la minaccia di portarle via il bambino la fa desistere e pertanto lo segue. Ritorna al paese ed entra nella casa che il padre le ha lasciato, ma tra quelle mura Sibilla scivola in una depressione e una angoscia tale da farle pensare alla morte come unica via di fuga. Sente di non riuscire ad essere un’educatrice per suo figlio; come sua mamma, della quale ha trovato una lettera d’addio, nella quale spiegava una fuga mai messa in atto. Non abbandona i figli e muore sola ed incompresa in un manicomio. Ora la sente vicina, col senno di poi le avrebbe detto di andarsene, di non sacrificarsi lasciando almeno ai figli un esempio di dignità. La speranza si riaffaccia nella vita di Sibilla: una fortuita eredità, l’indipendenza economica per sé e il bambino, quindi domanda nuovamente al marito la separazione. Riceve questa risposta. Sì lei può andarsene, ma mai con il figlio. Così deve essere, perché l’atavica legge maschilista questo decreta: la donna, la moglie non può possedere nulla, neppure i figli, né una propria eredità, la donna è da sempre sotto tutela dei vari “pater familiae”. Così Sibilla una notte, dopo aver abbracciato il suo bambino, se ne va “straziata ma ferma” perché convinta che se fosse rimasta nessuno si sarebbe salvato, il suo bambino sarebbe comunque rimasto orfano. Lei non voleva che lui assistesse a quella “tradizionale” passività femminile, “esempio avvilente di donna”, che l’avrebbe condotta alla follia o alla morte.
Nel dibattito, i lettori (quasi tutti rosa) hanno riconosciuto che al genere femminile, abilmente manipolato da cultura e religione, è stata incistata una diversità: una sopraffazione a volte cattiva, a volte umiliante, che ha aiutato a sedimentarne la subordinazione, un convincimento a lungo accettato e/o altrimenti punito, anche se, fortunatamente, non tutti gli uomini ne hanno approfittato. A lungo si è proclamata la donna come essere subordinato al maschio in quanto deficitaria, manchevole di qualcosa (e non si parla solo della costola). Convincimento errato, com’è ampiamente dimostrato dai fatti e ora anche dalla scienza. Nessuna inferiorità di base, né mentale né morale, tra i diversi generi, vi è solo l’essere umano ancora imperfetto con l’auspicabile compito di muoversi verso il proprio miglioramento.
Nel dibattito si è dunque parlato della figura giuridica della donna, pienamente riconosciuta dal Codice Civile Italiano solo nel non lontano 1975, con il nuovo Diritto di Famiglia che sancisce, infatti, la comune Responsabilità genitoriale e non più la Potestà maschile.
Abbiamo anche colto in Sibilla un comportamento poco adeguato al ruolo materno. Per trarre conforto, lei coinvolge troppo il suo bimbo sensibile nella sua sofferenza di donna. La mamma attenta sa di non doverlo fare, ma questa inadeguatezza materna è giustificata da un lettore il quale considera lei stessa, in fondo, quasi una bambina.
Questo libro ha posto un vero dilemma nel gruppo delle lettrici, combattute si sono domandate:
-“Come mi sarei comportata io? Avrei abbandonato i figli?”
E se tutti, a livello teorico, hanno compreso, giustificato, pensato come logicamente corretto il comportamento di Sibilla, con sincerità, molte lettrici hanno affermato anche essere sicure che non avrebbero potuto abbandonare i loro figli, altre invece hanno detto che solo l’ esperienza diretta avrebbe potuto dare loro la risposta.
Sibilla Aleramo ha messo a disposizione delle donne del Novecento la sua sofferta formazione verso la consapevolezza di sé. Noi oggi ci chiediamo: come è il mondo per le donne? Molte ancora le disuguaglianze e tantissime donne sono tuttora in cammino. E anche se in diverse parti del mondo i loro diritti sono tutelati, la vigilanza deve rimanere costante; qui mogli e madri lo sì è per scelta e questo non preclude le possibilità di essere e scegliere anche altro. Aggiungerei, in rinforzo a questa libertà responsabile, il pensiero di un filosofo-psicanalista, Jacques Lacan, il quale ha affermato che non c’è colpa nel seguire la legge del “desiderio” (che ovviamente non è il soddisfare tutto ciò che vogliamo), la vocazione insita in ogni essere umano, semmai la colpa, il peccato più grave, è proprio il tradimento di questa se, non tenendone conto, prendiamo un’altra strada, perché allora è “lì che la vita si ammala”. Applaudiamo dunque a Sibilla Aleramo e alla piccola Nora di Ibsen (che abbiamo ricordato), le quali, con il loro sofferto coraggio, hanno provato ad aprirsi il sentiero.
Autore
Sibilla Aleramo, pseudonimo di Rina Faccio, è stata la più importante scrittrice italiana a impegnarsi nel movimento di liberazione delle donne, sia con l’esempio della propria vita, sia attraverso scritti giornalisti, racconti e romanzi, tra cui il famoso Una donna. Ebbe una tempestosa relazione con Dino Campana.