Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

03 Novembre 2016

Giovedì 3 novembre il gruppo di lettura si è cimentato con un grande libro, Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pubblicato nel 1959, da sempre un classico. Forse, per tal motivo, alcuni giovani lettori non ne godono appieno la lettura, non sapendo ancora cogliere che sta anche in questa scrittura, perfetta nel suo scopo, l’appagamento di un buon lettore. Lo stile scorrevole, chiaro, semplice, colto, sottilmente ironico, emana profumi e descrive meravigliosamente antiche dimore ove i personaggi, la Sicilia e la Storia son vivi. Il libro racconta  l’epilogo di un’antica aristocratica famiglia, la disillusione consapevole di un uomo, addentrandosi  in una Sicilia  a descriverci il perché dei suoi canoni sempre uguali, sullo sfondo  poi s’intravede qualcosa del Regno d’Italia che va compattarsi. I luoghi: una Villa nei dintorni di Palermo -vicinissimo è lo sbarco dei Mille – il feudo di Donnafugata, dove il nostro protagonista  il “Gattopardo” Principe di Salina  si muove. Egli, ora  attento osservatore,  cerca  risposte ai tempi nuovi che sconvolgeranno il suo aristocratico mondo, prevede la  decadenza del suo ceto ma spera che ciò avvenga lentamente “che il sole narcotizzante della Sicilia renderà difficile ogni cambiamento” .E’ consolato, inoltre, dalle convincenti affermazioni del diletto nipote Tancredi -di cui è zio e tutore- che è già tra i rivoltosi rosso vestiti. Sono parole  rassicuranti  le sue: “Se vogliamo che tutto  rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”; il pericolo maggiore sarebbe stato un’ eventuale Repubblica  Mazziniana e così loro,  privilegiati  Borboni  trasleranno  tranquillamente nel  nuovo Regno d’Italia. L’aristocrazia continuerà a dar grandi  feste, a vender feudi e titoli impastandosi   all’arrampicante ceto emergente: la borghesia. Quello  che con  passi da gigante come un “elefante che va avanti in linea retta” spazza tutto. Sebbene ancor rozzo e volgare, ha al suo interno uomini  scaltri e furbi  interessati  a un  “oro senza bellezza”, nel mondo degli umili, invece, tutto resterà uguale. E qui ritroviamo  Don Fabrizio Principe di Salina che per il  per il bene futuro  del nipote Tancredi-principe  squattrinato  –  accetterà l’incarico, mandando giù il “rospo”-  di recarsi lui a chiedere  la mano di Angelica – la bella dalla cospicua dote-  figlia di Don Calogero Sedara, neo  sindaco in  Donnafugata. Incarico alquanto spiacevole poiché egli  prova repulsione per questo individuo gretto e ambizioso, un arricchito  manchevole sicuramente di “bon ton”. Nel  Principe Salina l’ambizione non necessita vi si è già inoltre insinuata la disillusione. Egli rifiuterà, infatti, l’offerta di diventare Senatore del nuovo Regno certamente per decoro –era stato gentiluomo di camera del Re Borbone-   e perché convinto di non poter contribuire al benessere della sua Sicilia  in cui   nessun  cambiamento positivo potrà esservi. E così la sua vita continuerà tra gli amati studi di astronomia -è un rinomato astronomo-, la caccia nell’aspra amata terra di Donnafugata e gli affetti che gli anni  assottiglieranno, consapevole d’essere l’ultimo vero Gattopardo perché Fabrizietto, ultimo erede  ha ormai  introiettato  i valori borghesi. Accompagna il lento distacco dell’energia vitale verso la  morte “a lungo corteggiata ,  che è via di fuga verso la tranquilla armonia  delle stelle”.

Ai commenti dei lettori si è aggiunta la lettura di pagine belle e significative.

In Don Fabrizio, l’ irritabile e falso burbero Principe di Salina, s’è riscontrato una bella vena maschilista d’epoca. Se egli ha amato un tempo la giovanissima Stella ora da lungo tempo nervosa Principessa dalle carenti prestazioni sessuali –sette figli e mai s’è intravvisto l’ombelico! –non si priva di cercare contatti carnali più soddisfacenti, inoltre lei è trattata come bimba e quel che dice non conta, ricordiamolo nella finta autorevole arrabbiatura  mentre  l’occhio è attento al  pronto  soccorso della  valeriana – ; inoltre si mostra molto orgoglioso di come la  giovane figlia Concetta accetta sottomessa la sua volontà e  poi quel considerare di poco conto  la sofferenza affettiva che ella patisce per il cugino Tancredi; ciò che invece l’attrae in  Angelica giovinetta è la forte sensualità in fiore. Di lei pensa  sia ambiziosa e non a lungo fedele, Ecco poi venire avanti le bertucce, giovani fanciulle invitate al gran Ballo, così le vede il Gattopardo “gli sembrava di essere in un giardino zoologico a sorvegliare un centinaio di scimmiette. E adesso solo l’altra nota di demerito, -, ma altri erano i rapporti genitoriali-,  la sfacciata preferenza per Tancredi ritenuto brillante, divertente e di grande avvenire di contro la poca stima e il distacco che tiene verso il noioso figlio primogenito. Immediata simpatia ha suscitato Bendicò , cane giocherellone, l’innocuo che come le quiete stelle ”è incapace di produrre angoscia”. Invece, suo malgrado,  moltissimi anni dopo l’imbalsamato Bendicò cagiona improvvisamente amari ricordi in Concetta inducendola  a disfarsene e Bendicò si trasforma in un misero mucchietto di polvere sancendo  metaforicamente anche la  fine  dei Salina. Ma perché questo solo ora? Nella vita severa  di zitella dove  ancora covava  la rabbia verso il padre e  il risentimento per un uomo che aveva sempre portato nel cuore, Bendicò ricordava a Concetta  momenti sereni. Ma il caso irriverente  l’ha portata a riordinare in un’ottica diversa la sua vita, le sembra ora sia stato un suo gesto stizzoso  ad allontanare Tancredi da lei guidandolo verso Angelica- non tiene conto degli altri elementi che certamente contribuirono, la dote invitante e la sensuale giovinezza d Angelica.  Lei, fanciulla  graziosa pudica, e troppo  orgogliosa  ne ha colpa è stata la sua “imprudenza”. Ora non può più “attribuire agli altri la propria infelicità” e  le ultime emozioni di  rabbia e  risentimento, che la aiutavano ancora a vivere, se ne vanno lasciandola completamente spenta.

Un altro personaggio ha fatto sorridere, Don Pirrone, cappellano, pedagogo e compagno d’osservazioni stellari. Paziente e servizievole gesuita dalle umili origini ma  che nella   quotidiana frequentazione dei patrizi  abitanti di  casa Salina è ora  in grado di  conoscere bene  alcune loro  peculiarità,  come ad esempio  l’importanza  di una “memoria collettiva” per cose delle quali a lui non importa un bel nulla ma per loro sono vitali. . .essi vivono di cose già manipolate”. Di Don Pirrone s’è poi    ammirato l’ arguta  generosa  intelligenza  come quel riuscire ad accomodare una vecchia disputa familiare e una tardiva  studiata  vendetta-la nipote ingravidata – quando, in visita presso la famiglia d’origine,  il mandorleto da sempre conteso diviene dote in un  matrimonio riparatore. Costatando  che in basso “la rusticità” e in alto- borghesia-aristocrazia-  nellinteresse,  tanto in realtà  si somigliassero. Onesto e dignitoso, invece, don Ciccio l’organista  Donnafugata –  compagno di caccia in quella terra di Don Fabrizio -, il quale per riconoscenza fedele al re Borbone vota No al plebiscito per l’annessione della Sicilia al Regno d’Italia. Purtroppo all’infuori del Principe non lo saprà nessuno in quanto il suo voto  è stato  tramutato dal sindaco don Calogero Sedara  in un bel Sì. Disonestà e sopruso grave alla prima prova di libera espressione che uccide in fasce la “neonata buonafede”e forse con lei la possibile “forza moralizzatrice della Sicilia”. Ma andiamo a curiosare in casa Sedara, don Calogero  è sposato a una bellissima donna che tiene nascosta perché  impresentabile alla buona  società. Lui, dagli occhietti intelligenti,  sgraziato e goffo nell’abbigliamento è riuscito con l’avarizia e intrallazzi a diventare ricchissimo ma   sempre “invisibile alla grazia”,  egli coglie in  tutto  il valore monetario. Sua figlia e il denaro sono mezzi per  la successiva scalata sociale; gli riesce tutto bene, è intelligente,   privo di scrupoli e dagli impacci  di un’educazione  che usa troppo spesso “per piacere permetti”… ecc… ecc,  perché per  lui approfittare “è legge di natura”. La figlia Angelica, sua erede, è una  giovinetta molto  bella dall’innata sensualità, ha studiato  in un  collegio  toscano e, ora  sgrezzata e molto ambiziosa,   potrà diventare una Principessa sposando il Principe Tancredi. Sembra sia per entrambi uno scambio ottimale- dote-titolo- in più i due giovani  si piacciono: la giovane età, i bei corpi, l’inesperienza alimenta un’infatuazione mirabilmente descritta da quel loro vagabondare nel labirintico palazzo di Donnafugata. Sono le prime pulsioni sessuali alimentate da  un desiderio costante e disatteso   “sublimato dalla rinuncia“ che  fa loro pregustare solo un frammento d’amore  che nel tempo non avrà mai la forza di espandersi e giungere a pienezza, lasciando nella loro vita  il  tenero rimpianto  per quei “giorni che erano stati per loro i migliori”. Sentimento che sembra attraversare anche  il Principe  Salina  la  sera del Gran Ballo  nel vederli ballare abbracciati e  felici “ignari di quel che il tempo arrecherà alle loro illusioni”. Si commuove  l’irascibile e di buon cuore Don Fabrizio Salina, il disilluso che  ormai nella vita lascia accadere le cose, osserva disincantato il lento sgretolarsi del suo mondo. Egli trova sollievo e rifugio  negli astri e le stelle, che “davano gioia senza pretendere nulla in cambio”, li si ritira per vivere  “la vita dello spirito” in “ momenti sublimati simili alla morte …”. Vive lucido e consapevole sino all’arrivo della Signora tanto attesa e allora una tenera tristezza lo pervade per  le “cose umili ma per lui preziose” che resteranno nell’abbandono, per i “ricordi inconsueti, distinti da quelli delle altre famiglie” che con lui  ultimo depositario di quell’aristocratica famiglia, scompariranno. Cerca  poi tra  lì“’immenso mucchio di cenere della passività le pagliuzze d’oro dei momenti felici” ed è misero  bilancio la sua vita… è tempo breve quello veramente vissuto, il resto… un ammasso confuso d’affanni dolorosi e noia. Un  uomo  che il tempo declina al pensiero decadente il Principe Salina, può in questo  aver inciso anche   la sua sicilianità? Quella  che lui rigorosamente descrive a Chevallay, il piccolo Nobiluomo piemontese venuto a chiedergli la partecipazione  al nuovo Senato  italiano, la  stessa che tenta chiarire  ai due  ufficiali inglesi prima dell’arrivo di Garibaldi: il   perché i siciliani non vogliono  cambiamenti né miglioramenti. Dopo due millenni di dominazioni  i siciliani si sentono “stanchi e vecchi”  non amano il “fare”, sono già ricchi di splendide vestigia che li fanno sentire già  grandi senza nessuna voglia di “svegliarsi” da quel torpore che un clima difficile  accentua. L’ eccesso  di luce, bellezza, le interminabili  torride estati, gli  aspri e riarsi paesaggi non consentono il germogliare della  pacata via di mezzo In  questa Sicilia chi vi abita e nasce non  cambierà mai. I siciliani  vivono  una cieca fierezza  e  una superiorità “si credono perfetti”, così  tutti  affermano  “… noi siamo dei”. E il Gattopardo dallo sguardo limpido lo riconosce anche in se stesso e lo accetta.

 

Autore

Giuseppe Tomasi, principe di Lampedusa, nacque a Palermo nel 1896 e morì a Roma nel 1957. Il suo capolavoro Il Gattopardo fu pubblicato un anno e mezzo dopo la sua morte, era rimasto a lungo inedito, ma al suo apparire fu subito riconosciuto come una delle massime opere letterarie del secolo scorso, tanto che vinse il Premio Strega nel 1959.


Genere: romanzo