O3 Ottobre 2019
Un mostro della letteratura – Il Processo di Franz Kafka – è l’opera narrativa dibattuta dai lettori ai primi di ottobre. Libro difficilissimo, ci lascia confusi e pervasi da un’inquietudine che è quasi ansia, perché quest’opera incompiuta, misteriosa nella sua difficile allegoria, apre sprazzi metaforici precursori di un mondo in cui potremmo riconoscerci. Quel suo sovrastante Tribunale ci rammenta la nostra invasiva istituzionale burocrazia e in oggi pervaso dai media e informatica spesso mal usati, quelli avvocati che reclamano la stessa umiliante servitù cerebrale dell’individuo. Un romanzo incredibile in cui il realismo oggettivo puntiglioso percorre un mondo buio, abitato da persone dai comportamenti assurdi e grotteschi che noi lettori tentiamo seguendo le vicissitudini Josef K., inutilmente di comprendere. Uomo dotato di un lucido ragionamento, improvvisamente risucchiato in un labirintico percorso verso un qualcosa di necessario, sebbene ingiusto, che lo porterà ad una resa cosciente e, in eredità, lascerà la vergogna di un essere annullato.
A lato di una scrittura nitida, il linguaggio è complesso, ambivalente, poche sono le scintille che rischiarano questa lettura che ha noi sembra onirica sin dall’inizio …. Un giorno all’improvviso irrompono nella camera da letto di Josef K. due strani agenti di polizia per comunicargli l’arresto –con libertà di movimento- con un’accusa dal Tribunale che non gli riferiscono e non conoscono. Ci sarebbe stato un processo contro di lui. Josef K. pensa ad un errore o ad uno scherzo, lui è innocente, si sente tranquillo. La notizia si propaga velocemente e la situazione non va sottovalutata quando lo zio gli prospetta la possibile responsabilità sulla conseguente cattiva reputazione familiare, ne accetta l’offerta d’essere difeso da un avvocato amico dello zio stesso. Tutto cambierà per Josef K., s’accorgerà progressivamente che tutto e tutti sono connessi con questo Tribunale. Le sue capacità logiche, che gli hanno permesso di diventare un ottimo funzionario di banca, e sulle quali confida per la sua difesa, in realtà lo danneggiano. Il Tribunale è stranamente collocato in solai collegati da corridoio in cui l’ aria è pesante, asfittica, e che come una ragnatela si dirama in tutta la città. Per questo Tribunale lui è già colpevole di una colpa mai esplicitata. Si trova talmente immerso e coinvolto nella stancante opera difensiva e con il pensiero ossessivamente rivolto al processo, da non lasciar spazio a nient’altro. Non regge al lavoro, permettendo così a quel pescecane del Vice direttore di appropriarsi dei suoi clienti. Lui tenta più strade e agganci, con persone che bazzicano il Tribunale, perché lo aiutino a capire di più: non è convinto del modo di procedere del suo avvocato, ma si rende sempre più cosciente che tutti quelli che lavorano per il Tribunale sono parte di un organismo piramidale, sono solo ingranaggi e che la loro conoscenza è settoriale, limitata al proprio incarico e funzione. Tutto è lento, nebuloso, pertanto solleva l’avvocato dall’incarico e prova a difendersi da solo, contattando tutti coloro che sembrano in qualche modo poter influenzare le decisioni del Tribunale. Non è interessato né all’assoluzione fittizia né al differimento, soluzioni che gli vengono illustrate dal pittore dei giudici e che lo lascerebbero, entrambe, comunque con la spada di Damocle di una ripresa del Processo. Dunque, non intravvedendo vie di uscita, si rassegna e accetta la conseguente sentenza e condanna a morte.
Molti lettori hanno colto un atto d’accusa alla società tutta: prevaricatrice, insensata, occulta e invasiva che annulla la persona impedendone una reale libertà.
C’è stato qualche lettore che nei corridoi dall’aria pesante ha potuto respirare solo richiudendo le pagine del libro e chi invece con piacere segue il cervellotico enigma che l’autore ci offre.
Trai lettori alcune esperienze personali in Tribunale danno conferma che l’impersonale Legge fissa e rigida nell’assolutezza di principio a volte non da modo al diramarsi della Giustizia, quella della ragionevolezza e del buon senso. Qualcuno ha avvertito timore per l’imprevedibilità di cose che dall’esterno e con parvenza di diritto -casi di omonimia- possono irrompere improvvise e violente nella propria vita. Altri notano nel romanzo una visione ristretta e parziale del genere femminile, pur se in questo scritto alcune si considerino influenti –Josef K. pensa infatti di ricorrere al loro aiuto nel Processo. Sono oggetti sessuali, ti danno piacere, ma sanno anche far dono ‘non gratuito’ della loro sessualità oppure sono bambine incommensurabilmente dispettose e petulanti. C’è poi chi coglie, dal comportamento del bastonatore e dello stesso Josef K. nell’episodio dello sgabuzzino, in quel muoversi confuso e contraddittorio, un collegamento con l’autore. Conseguenza di un’educazione paterna autoritaria che si lega poi l’ebraismo sofferto di Kafka, in cui la colpa originaria del nato non ha nessun Cristo Salvatore che la purifica. Altro apporto viene dal suggerire che l’autore si è nutrito e ha respirato in un periodo storico e letterario non più influenzato dal pensiero positivista. Altri ritengono importantissimo il dialogo, dentro il buio e freddo Duomo, tra il confessore del carcere del Tribunale e Josef K. e, nella parabola del contadino e del custode, davanti alla porta della Legge la cui profondità è resa talmente arzigogolata e contraddittorio che difficile è giungerne a chiarezza.. E ancora qualcuno osserva – nella vittima Josef K. – anche un distacco empatico dagli altri, una solitudine anaffettiva, uno sforzo su di se per mantenere un’immagine formalmente corretta per gli altri. ma anche per se stesso che lo convinca di una sua correttezza essenziale. Ora, accolti i nostri input e rammentando l’influenza perniciosa assorbita della relazione paterna, aggiungendovi l’importanza che ha avuto il suo fisico malato abitato da una fragilità emotiva, proveremo umilmente a ricomporre il tutto in una riassuntiva sicuramente manchevole “opinione”.
L’Opera racconta di una Legge necessaria “originaria” benché non giusta, di un reato che nemmeno i membri del ramificato piramidale Tribunale conoscono, ma di cui se ne persegue la colpa anche se non individualmente accertata. In tutti c’è colpa pur se si proclamano innocenti. Un uomo, Josef.K, è accusato e difende la sua innocenza con parole di logica, ma la pressione progressiva, invasiva di questo Tribunale nebuloso, del non senso lo porta lentamente all’ossessione. Cerca una difesa che possa salvarlo da un capo d’accusa che non conoscerà mai ma che gli fa sentire addosso una colpa astratta portatrice di una vita sospesa. Non regge s si abbandona dunque alla sentenza di morte. Vi è poi la preziosa parabola del custode guardiano della porta “personale” della Legge e del contadino che vuole entravi ma ne aspetta il permesso o tenta deboli tentativi di corruzione a un guardiano incorruttibile. Pazienza e logica in quell’uomo che non tenta mai la forzatura fisica che la passione alimenta e ingrandisce.
C’è qualcosa in tutto questo che può essere connesso con la vita tormentata del Nostro autore? Un uomo del Novecento in cui comincia a respirare il vuoto e l’incomunicabilità, è ebreo e pure se scrive “io non sono colpevole Come possibile che l’uomo sia colpevole Siamo tutti uomini“, è attratto dalla colpa ,vissuto nella “magica Praga“, nutrito dall’immaginaria cultura tedesca. E’ un visionario che nel il buio della notte libera le sue catene. Lui si definisce bruttissimo,per quel suo fisico malato e magrissimo; il padre è totalmente incapace ad accettare la natura del figlio. Questa incomprensione autoritaria esercitata fin da quando era bimbo porterà progressivamente Kafka alle sue ossessioni e a quel chiudersi in se stesso nella notte amica della sua scrittura dove le emozioni, se pur allegoricamente, prendendo forma si esprimono. Kafka ha vissuto costantemente un doppio conflitto: in primis con il padre – non è diventato l’uomo forte e socialmente rilevante che il padre voleva – e poi con se stesso – non ha mai avuto la determinazione per essere e vivere la vita che desiderava. Doppio fallimento, delusione, quindi colpa …vergogna.
Pensiamo che molto della vita tormentata di Kafka derivi dalla mancanza d’amore, tutto l’amore incondizionato e necessario che permette ad ogni bambino che cresce di sviluppare quella forza fiduciosa che apre agli altri e al mondo.
Autore
Frank Kafka è uno scrittore boemo di lingua tedesca. Figlio di un agiato commerciante ebreo, ebbe col padre un rapporto tormentoso, documentato nella drammatica “Lettera al padre” (1919). Il fidanzamento con Felice Bauer, interrotto, ripreso, poi definitivamente sciolto, la relazione con Dora Dymant, con cui convisse dal 1923, testimoniano l’angosciata ricerca di una stabilità sentimentale che non fu mai raggiunta. Intraprese lo studio della Giurisprudenza, si laureò nel 1906 e si impiegò in una compagnia di assicurazioni. Malato di tubercolosi, soggiornò per cure a Riva del Garda (1910-12), poi a Merano (1920) e, da ultimo, nel sanatorio di Kierling, presso Vienna, dove morì.
Praga era, ai tempi, un vivace centro culturale e particolarmente viva era la presenza della cultura ebraica. Kafka strinse amicizia con Franz Werfel e Max Brod, partecipando alla vita letteraria della città. Nel 1913 esordì con una racconta di brevi prose, “Meditazione”. Nel 1916 pubblicò il suo racconto più celebre “La metamorfosi”, storia allucinante di un uomo che, risvegliandosi il mattino nel suo letto, si trova trasformato in un enorme scarafaggio e deve subire, fino alla morte, tutte le umiliazioni della nuova, degradante esistenza. Il 1916 è l’anno di “La condanna”, seguono poi “Nella colonia penale” (1919), “Il medico di campagna” (1919), “La costruzione della muraglia cinese” e tre romanzi incompiuti: “America” (1924), “Il processo” (1924) e “Il castello” (1926).
Motivo fondamentale dell’opera di Kafka è quello della colpa e della condanna. I suoi personaggi, colpiti improvvisamente dalla rivelazione di una colpa apparentemente sconosciuta, subiscono il giudizio di potenze oscure e invincibili, vengono per sempre esclusi da un’esistenza libera e felice.
Alcuni hanno scorto nell’opera kafkiana un significato religioso, interpretandola come un’allegoria dei rapporti tra l’uomo e la divinità inconoscibile; altri hanno ravvisato nei personaggi di Kafka l’immagine dell’uomo alienato dalla moderna civiltà industriale e condannato a una solitudine atroce.