Jon Fosse è uno scrittore e drammaturgo norvegese, Premio Nobel per la Letteratura nel 2023 – “per le sue opere teatrali e di prosa innovative che danno voce all’indicibile” –, Jon Fosse scrive romanzi, racconti, poesie e opere per il teatro, tradotti in più di quaranta lingue.
Vincitore di numerosissimi premi e riconoscimenti in patria, per un certo periodo gli è stato concesso di risiedere nella residenza reale di Grotten, al centro di Oslo, per meriti letterari. I primi riconoscimenti arrivano già agli inizi degli anni Novanta, in particolare per i suoi racconti per l’infanzia; nel 1996 si aggiudica per la prima volta il prestigioso Premio Internazionale Ibsen; da allora, la sua attività artistica è costantemente accompagnata da premi: il Nynorsk Literature Prize, lo Swedish Academy’s Nordista Pris, il Premio Ubu, l’European Prize for Literature. Nel 2003 gli viene conferito il Cavalierato in Francia, e nel 2010 vince nuovamente il Premio Ibsen per il Teatro.
Del dicembre 2016, il premio Willy Brandt, che sancisce il successo di Fosse in Germania. Secondo il Daily Telegraph, Jon Fosse merita di figurare tra i 100 geni viventi in tutto il mondo.
In Italia l’autore norvegese ha pubblicato con Fandango: Melancholia è del 2009 e Insonni del 2011.
La nave di Teseo ha invece tradotto Mattino e sera (2019), L’ altro nome. Settologia. Vol. 1-2 (2021), Io è un altro. Settologia. Vol. 3-5 (2023).
Annie Ernaux è una scrittrice francese vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura 2022. Di famiglia operaia, ha vissuto fino all’adolescenza in Normandia, mantenendo in seguito un forte legame con l’ambiente sociale d’origine e le tematiche della differenza di classe. Ha esordito con il romanzo Gli armadi vuoti (Les Armoires vides, 1974), nella tradizione del realismo sociale, cui è seguito Il posto (La place, 1984), ricostruzione del proprio ambiente familiare. Nei romanzi successivi ha continuato a indagare, in un linguaggio «vero», che si vuole oggettivo e depurato da evasioni stilistiche o di finzione romanzesca, i luoghi e le sensazioni della propria autobiografia al femminile: Passione semplice (Passion simple, 1991), La vita esteriore (La vie extérieure, 2000, nt), Perdersi (Se perdre, 2001, nt), L’uso della foto (L’usage de la photo, 2005, nt), L’altra figlia (L’autre fille, 2016). Gli anni (Les années, 2008), pubblicato da L’orma nel 2016, è vincitore del Premio Strega Europeo 2016 e finalista del Premio Sinbad 2015 – Narrativa straniera. Con L’Orma ha pubblicato Memoria di ragazza (2017), La vergogna (2018) e La donna gelata (2021).
Nel 2022 è vincitrice del Premio Nobel per la letteratura con la seguente motivazione: “per il coraggio e l’acutezza clinica con cui scopre le radici, le estraneità e i vincoli collettivi della memoria personale”.
Premio Nobel per la Letteratura 2021, è un romanziere tanzaniano nato a Zanzibar il 20 dicembre 1948. A diciotto anni, a causa dell’appartenenza al gruppo arabo vittima dell’oppressione sotto il regime del presidente Adeid Karume, fu costretto a lasciare il paese e a rifuggiarsi in Gran Bretagna, dove continuò gli studi fino a diventare docente di letteratura inglese e postcoloniale presso l’Università del Kent a Canterbury.
Si avvicina alla scrittura solo dopo vent’anni dall’esilio scrivendo in inglese. È questa la lingua che sceglierà come idioma letterario e nella quale pubblicherà tutti i suoi romanzi, tra i quali ricordiamo: il romanzo di formazione Paraside, pubblicato nel 1994 e subito oggetto di discussione da parte della critica, Desertion (2005) e By the Sea (2001), selezionato per il Men Booker Prize e per il Los Angeles Tmes Book Award.
In Italia sono stati tradotti da Garzanti Sulla riva del mare (2002) Il Disertore (2006) e Paradiso (2007).
Nel 2021 riceve il Premio Nobel per la Letteratura con la seguente motivazione: “per la sua intransigente e compassionevole penetrazione degli effetti del colonialismo e del destino del rifugiato nel divario tra culture e continenti”.
Il romanzo L’amore ai tempi del coleradel Premio Nobel Gabriel Garcia Marquez parla, ovviamente, d’amore descrivendolo nelle sue molteplici sfaccettature: platonico, adolescenziale, romantico, passionale, carnale, geloso, coniugale, amicale e altro. Incorniciato dai colori caldi di un paese, il Cile, permeato ancora da una fatiscente cultura coloniale e dall’endemico colera. Siamo negli anni che corrono tra il 1870 e il 1920. L’autore con una scrittura corposa e dettagliata, realistica ma anche magica, emozionante ed ironica, mescolando il tempo in anticipazioni rivelatrici, ci affida a un onnisciente narratore che si china nei personaggi raccontando vite coinvolte nell’amore e nella speranza. Ci narra, infatti, una storia d’amore che si coronerà dopo cinquantatrè anni, nove mesi e quattro giorni grazie alla paziente volontà di un uomo che ne aveva fatto il punto cardine dell’esistenza. Un amore nato dall’incontro di uno “sguardo casuale” dell’allora adolescente Florentino Ariza -aspirante telegrafista, figlio amato di una madre sola- provocatore del cataclisma che gli cambierà il corso della vita. L’amata è Firmina Daza dalla lunga treccia, ha tredici anni, frequenta la rinomata Scuola Cattolica per fanciulle abbienti e quello sguardo a lei nulla dice . Ma poi tra appostamenti e lettere segrete crescerà tra i due una sentimentale platonica relazione rafforzata dall’ opposizione paterna. Questa pur allontanandoli territorialmente e a lungo provocherà l’inondazione di parole – i traboccanti romantici giornalieri telegrammi dell’appassionato Florentino-, che li condurrà alla reciproca “promessa” di matrimonio. Ahimè quando, rientrata dal lungo l’esilio, Firmina finalmente rincontrerà (si erano parlati solo una volta) l’amato, i suoi occhi “vedranno” una realtà così poco accattivante che all’istante comprenderà di non amare quel Poveruomo. Florentino Ariza verrà dunque letteralmente cancellato dai suoi pensieri. Sposerà al suo posto il più ambito scapolo della città, Juvenal Urbino. Lo farà non per amore ma per il peso della sua solitudine sociale, perché la benestante Firmina era esclusa dal cerchio sociale cittadino – l’elite di antica nobiltà coloniale-. Juvenal Urbino, giovane medico dalle idee moderniste – aveva studiato a Parigi- era bello, ricco nobile. Sposandolo lei entrerà, al principio snobbata poi pienamente accolta – ha indubbie qualità personali – in quella vita sociale, affiancando e poi sostenendo egregiamente il marito nelle molteplici e innovative attività civiche. Il dott. Juvenal Urbino a sua volta s’era sposato non ispirato dalle frecce di Cupido, ma spinto dalla curiosità e apertura verso questa giovane donna, estranea al suo ambiente sociale, così determinata e intelligente. Ed è stata una buona scelta. In questo inizio coniugale, subito una piacevole sorpresa, e il merito va all’ intelligente delicatezza con cui il dott. Urbino concretizza il primo rapporto sessuale con la terrorizzata Firmina. Questo li porta velocemente ad amarsi bene come amanti. Poi le traversie in una relazione coniugale che però cresce nel tempo costruendo un affetto sincero, solido, cementandoli in quello che loro chiameranno amore. Sino a quel malaugurato giorno in cui l’ottantenne amato e stimato o dott. Juvenal Urbino – per riacchiappare il pappagallo fuggito su un albero- cade da una scala e muore. Ed ecco che il giorno del funerale, l’anziano Florentino Ariza presentandosi in quella casa in lutto, rinnova alla stupefatta, indignata Firmina, la dichiarazione del suo eterno amore. Florentino Ariza, era diventato un uomo importante, per lei, per essere alla sua altezza sociale si era costruito nel tempo un buon status sociale: Presidente e proprietario della Compagnia fluviale di battelli, sempre però allampanato e vestito di nero. Ma com’erano trascorsi in lui questi cinquant’anni di solitudine? All’epoca del fulmineo abbandono di Firmina era caduto malato – i sintomi quelli di un pseudo colera ma era l’amore- si risolleverà dopo essere stato “stuprato” da una donna sconosciuta, scoprendo con lei quel piacevole naturale “amore carnale” poi compagno prezioso nei lunghi anni senza Firmina. Collezionerà, infatti, -quasi sempre con donne vedove- seicentosessanta segretissime relazioni durature. All’inizio sperando di dimenticare Firmina, poi proseguendo per tale strada però fedele, in una “verginità emozionale-mentale”, alla sua adolescenziale passione amorosa, rimanendo in attesa, della morte del dott. Urbino convinto sempre del felice coronamento di quell’amore. Una vita in ombra a seguire l’esistenza di lei, ed ecco finalmente giunto il momento tanto atteso. Due anziani ora si rincontreranno, due persone plasmate dalla vita che è trascorsa, diversi dagli adolescenti di un tempo – E proprio da questa realtà diversa – il vecchio Florentino troverà il modo paziente per riavvicinare a lui la vedova Firmina. Non più ombra sconosciuta ma uomo reale; ed è nella loro riconosciuta vecchiezza e alterità che insieme ora, in quel battello senza più un porto continueranno assieme l’ultima, e per questo intensa parte della vita.
Questo romanzo – dato che ogni libro parla e si rispecchia nella diversità dei lettori- ha movimentato parecchio dibattito mostrandone come sempre spicchi di verità. Opposte fazioni dunque su scrittura, personaggi, amore, ma anche molte socievolissime risate. Ecco allora i lettori sentire la scrittura come: troppo arzigogolata, lenta, pesante, barocca, che allargandosi affatica oppure splendidamente visiva, ricca, poetica, ironica, ricca, dai piacevoli aneddoti, affresco di un Paese dalla tanta fisicità e con metafore folgoranti. Certo si è criticato alacremente Florentino Ariza cristallizzato in un’ossessione, sgangherato, brutto, ridicolo, infaticabile riprovevole cacciatore notturno di donne da usare, ributtante perché orrendamente colpevole di pedofilia. Tra i lettori c’è però ammirazione per la fantastica grandezza nel saper conservare dentro il cuore, una fedeltà d’amore cosi. Neanche Firmina si salva, lei che lo lascia di colpo e più non lo pensa, quella che senza amore sposa poco dopo il nobile dottore. Per alcuni lettori poi quest’amore lo si vede come un’infatuazione che si aggira tra la patologia ossessiva e la realistica impossibilità. Si dice anche non sia amore, nemmeno quello della loro età tardiva forse è un semplice accompagnarsi fatto di tenerezza. Ma se ripercorressimo il buon rapporto coniugale di Firmina, tralasciando l’innamoramento adolescenziale dei Nostri, per arrivare sino al perpetuo gironzolare acqueo di Firmina e Florentino anziani amanti, potremmo scorgere amore che è ancora nella speranza e forza vitale. Dunque andiamo al matrimonio degli sposi Urbino: come lettori si resta conquistati dall’ accattivante realismo descrittivo dell’autore. Ammirati per la capacità di Juvenal di portare velocemente all’ intesa sessuale e in Firmina la determinatezza nell’impartire quell’aut aut allo sposo –ancora purtroppo figlio- che li ricondurrà a Parigi e al loro rientro a Cartagena nella nuova e moderna casa, distanti dall’antica dimora nobiliare e in coabitazione con suocera e cognate, dalle regole noiose, ripetitive e bigotte, che rendeva infelice Firmina. Alla nascita del primo bambino poi un po’ di quell’amore riconquistato, Juvenal Urbino lo perderà, la dislocazione è accettata la comprende , è per la buona costruzione della sua famiglia. È un amore il loro che si muove tra piccole lotte di potere –il silenzio o i primi rumori mattinieri, la voglia di dormire il bagno e le saponette dove si misurano a lungo le forze e nascono i compromessi. Un amore misurato anche nella capacità di Firmina di percepire e preparare il cibo che lui desidera, ma non dice -Cibo con amore lui lo chiama. Ma cresce l’intesa e nel tempo la soddisfazione reciproca. Una coppia dalla vita sociale e civile partecipata che verrà ammirata e apprezzata. Poi la sbandata erotica del cinquantenne dott. Urbino che il buon odorato di Firmina fiuta, il senso di colpa del pio Juvenal sollevato però dal perdono sacramentale, quello che Firmina detesta -è insopportabile invadenza nella sua privacy-. Lei non perdona anzi si vendica allontanandosi a lungo dalla Casa coniugale, ben lieta però di rientrarne quando il dott. Urbino andrà a riprenderla. Gli anni scorrono ancora e la quotidianità li ha condotti lentamente a quel conoscersi che può essere tanto d’aiuto all’altro, e mentre i figli conducono le loro vite altrove a diventare figlio è ora il dott. Urbino. Un figlio rispettato e aiutato nelle fragilità di quell’età, con amore. Amore coniugale, costruito dentro un buon matrimonio , ora un grande affetto-amore. Firmina solo questo ha conosciuto. Ma la vedova Firmina ora ha consapevolezza di essersi adattata- lei che era nata selvatica- sente di non avere una propria identità. Questa si è formata ed è cresciuta nella vita che suo marito gli aveva porto.
La vita a Florentino Ariza, calvo, con dentiera perfetta e perenne vestito luttuoso, con la mente e il cuore focalizzato in Firmina, il tempo e le numerosissime esperienze di “amori” vedovili e amicali o il caso aveva abortito o lo aveva dotato di una reale grandissima conoscenza del mondo femminile. E proprio quello scambio, in realtà rispettoso e reciproco d’incontri -lui caccia ed è cacciato da uguali che si percepiscono bisognosi d’amore – lo renderà capace di farsi finalmente amare da Firmina. Peccherà invece oltremodo con la giovanissima Amerika, la pupilla di cui era il tutore, lui vecchio, la circuisce programmando nel tempo quella relazione che poi lui troncherà per avvicinarsi alla vedova Firmina, provocando il suicidio della piccola. Deboli le difese in suo soccorso: conosceva solo donne adulte e non era stato in grado di valutare la reazione di una adolescente. E ora arriviamo a questi due anziani, seduti vicini mano nella mano “ossa vecchie ma al momento successivo non lo erano più” in silenzio nella veranda a guardare il fiume. E’ solo bisogno di compagnia? Avrebbero potuto tornare a casa e continuare a vedersi in amicizia. Ma a loro non bastava più “L’amore alla loro età è porcheria” come diceva la figlia di Firmina e tanti ancor oggi pensano? Florentino e Firmina In quel breve viaggio in battello sul fiume sono stati fidanzati: “aveva consapevolezza di comportarsi come fidanzati”…”una certa vergogna per i galoppi del suo cuore”…”il rossore che le sale sul viso”…“ sogno altri viaggi futuri viaggi folli ,viaggi d’amore” e lui vestito tutto di bianco per lei. Poi sono andati oltre la fatica coniugale approdando all’essenza dell’amore perché si può sempre amare ( l’altro nella sua realtà in condivisibile oltre la carnalità, mi sembra lo dica Lacan). E Firmina Ariza lo ama “senza nessun bagliore di nostalgia, bensì com’è adesso decrepito sciancato reale, l’uomo che era sempre stato lì e che non aveva saputo riconoscere”. Ama quell’uomo che la vede e accetta interamente per quella che è; lui ama quella donna dalle ossa e il fiato pesante da vecchia, libera di essere se stessa, e lei sa tacere il suo doloroso mal d’orecchi perché sente quanto lui se ne preoccuperebbe. Così passati i rossori, i batticuori e l’accettazione della loro corporeità fatiscente -sono anche riusciti a far l’amore come due “ nonni sgualciti”- stanno lì assieme, senza prevaricazioni mano nella mano con la fiducia di bimbi e adulti che si danno in reciprocità, danzano in quel movimento lento fluviale che li alimenta, perché in qualsiasi tempo l’amore é.
Autore
Gabriel García Márquez è scrittore colombiano Premio Nobel per la Letteratura nel 1982.
Come giornalista ha soggiornato in Francia, Messico e Spagna; in Italia è stato allievo del Centro sperimentale di cinematografia.
Ha esordito con un breve romanzo, dove più evidente è l’influenza di Faulkner: Foglie morte (La hojarasca, 1955), cui sono seguiti Nessuno scrive al colonnello (El coronel no tiene quién le escriba, 1961); i racconti raccolti ne I funerali della Mamá Grande (Los funerales de la Mamá Grande, 1962), nei quali, soprattutto in quello che dà il titolo al volume, è già tratteggiato il mondo mitico e paradossale del narratore; La mala ora (La mala hora, 1962), altro romanzo, dove si narra una storia spietata di lettere anonime che coinvolge un intero paese, e Cent’anni di solitudine (Cien años de soledad, 1967), considerato il suo capolavoro, centrato sull’immaginaria ed epica comunità di Macondo.
Fuori del ciclo macondiano stanno il romanzo L’autunno del patriarca (El otoño del patriarca, 1975), torbida e visionaria vicenda d’un dittatore imprecisato, di segno anch’esso mitico; il racconto lungo L’incredibile e triste storia della candida Eréndira e di sua nonna snaturata (La increíble y triste historia de la candida Eréndira y de su abuela desalmada, 1972); il romanzo breve Cronaca di una morte annunciata (Crónica de una muerte anunciada, 1981), dove un fatto di cronaca, un delitto d’onore, sembra rovesciare ogni logica sotto il segno d’un destino emblematico, tanto spietato quanto capriccioso; il romanzo L’amore ai tempi del colera (El amor en los tiempos del colera, 1985) in cui si racconta la lunga storia ottocentesca di un amore che resiste a trent’anni di separazioni e traversie; Il generale nel suo labirinto (El general en su laberinto, 1989), ispirato alla vita e agli amori di Simón Bolívar; Dell’amore e di altri demoni (Del amor y otros demonios, 1994).
Ha inoltre pubblicato la raccolta di articoli Taccuino di cinque anni 1980-1984 (1991) e l’indagine giornalistica Notizia di un sequestro (Notícias de un secuestro, 1996, sul rapimento di dieci persone da parte dei narcotrafficanti). Attraverso disarticolazioni cronologiche e forme fiabesche e leggendarie, spesso lievitate in pagine di gustoso umorismo, G.M. dà nelle sue opere una visione complessa e contrastata della «solitudine» dell’uomo latinoamericano e della condizione alienata e allucinata del mondo tropicale.
Nel 2001 è uscita la prima parte della sua autobiografia, Vivere per raccontarla (Vivir para contarla) cui ha fatto seguito il romanzo Memoria delle mie puttane tristi (Memorias de mis putas tristes, 2004).
Nel 1982 ha ottenuto il premio Nobel per la letteratura «Per i suoi romanzi e racconti, nei quali il fantastico e il realistico sono combinati in un mondo riccamente composto che riflette la vita e i conflitti di un continente».
Premio Nobel per la Letteratura 2018 “per un immaginario narrativo che con passione enciclopedica rappresenta l’attraversamento dei confini come forma di vita”.
Insignita di numerosi premi letterari, tradotta in diciannove lingue e vincitrice per ben tre volte del Premio letterario Nike, Olga Tokarczuk ha ottenuto, coi i suoi romanzi, un enorme successo sia in Polonia che all’estero. È una delle autrici più popolari in Polonia, per tre anni di fila i suoi libri sono stati votati come i più amati dal pubblico di lettori.
In Italia ha pubblicato, tra gli altri: Dio, il tempo, gli uomini e gli angeli (E/O 1999); Che Guevara e altri racconti (Forum 2006); Guida il tuo carro sulle ossa dei morti(Nottetempo 2012); Nella quiete del tempo (Nottetempo 2013); Casa di giorno, casa di notte (Fahrenheit 451 2015); L’ anima smarrita, con Joanna Concejo (TopiPittori 2018); I vagabondi (Bompiani 2019).
Immagine dell’autrice: sito della casa editrice Nottetempo.
La guerra non ha volto di donna, della scrittrice premio Nobel Svetlana Aleksievic, è un libro intenso, doloroso e diverso. Dopo l’esplicativo e splendido prologo dell’autrice ci sono pagine di ascoltata verità, tenute a lungo racchiuse entro scrigni di donne. Donne sovietiche, formate, modellate dal socialismo staliniano e attivamente presenti nella Guerra Vittoriosa contro la Germania nazista (II Guerra Mondiale). Più di un milione di donne, delle quali molte volontarie, sono accorse a difendere quella Patria che oggi più non esiste. Svetlana Aleksievic le ha cercate e per anni, con un’attenta umanità che ispira fiducia, è riuscita ad accoglierne le voci, ascoltando una realtà di fatti lontani, mescolati e intrisi dei sentimenti allora vissuti. Questa la Storia che vuole far conoscere: un grande puzzle fatto di vita testimoniata, cui lei da il nome di letteratura perché “c’è poesia e letteratura nella donna che narra”. La storia di guerra è diversa da quella che l’uomo racconta, sebbene è al suono di parole maschili che giovanissime adolescenti – figlie di una laica fede per la Patria “La Madre Patria ti chiama” – hanno chiesto il fucile, hanno combattuto e ucciso. Poi le tante medaglie riposte, il lungo silenzio e ora nei loro racconti non nomi di battaglie o di eroi ma lacrime e vita di allora nel pensiero di oggi. “Io ricordo solo quello che ho vissuto. La cosa più terribile è la morte”. La guerra uccide e le donne non la amano, non “curano le pistole” ma curano la vita; per i loro corpi femminili la guerra è lotta faticosa (tante ricordano stupite l’immane sforzo fisico e psichico che sono state al tempo capaci di sostenere), ma l’ aspetto che rende loro “più atroce” la guerra è la capacità di accogliere penetranti percezioni, sfumature di sentimento sottili. Questa è un’empatia che soffre, ma che sa anche cogliere “l’odore, il calore, il sapore di dettagli che sostanziano l’esistenza”, nonostante la devastazione le donne riescono ancora a ricreare le piccole quotidiane familiarità che rendono il vivere più umano accanto alla morte. Piccole cose, gesti femminili “ci si sforzava comunque di restare sé stesse”: ricamare fazzoletti prima dell’ordine di alzarsi in volo; un collettino bianco fatto di garze appuntato alla giubba nel ricevere un riconoscimento al valore militare; il vestito da sposa – in un matrimonio di guerra – uscito dalle bianche bende requisite al nemico, rinunciare ai pochi grammi di zucchero in dotazione per trasformarlo in gel per i capelli ricresciuti dopo la militare rapatura; finalmente la gonna militare ritagliata dai tuttofare sacchi-tenda; dormire una notte intera sedute, e in testa quei i bei cappellini prelevati dalla modisteria tedesca, alla fine della guerra una bella fotografia con le decorazioni al petto ma assolutamente scattata in mezzo all’aiuola fiorita, e morire perché bersaglio è stato il bel fazzoletto rosso posato sul tuo collo cui non hai rinunciato. E infine quella paura comune a tutte e solo femminile di morire in pose sconvenienti, impresentabili anziché posate entro una bara e quindi bella “come una promessa sposa”. Sì perché la bellezza conta, e il riconoscerla anche in brevi luccichii aiuta. Si può protrarre il proprio turno di guardia notturno per veder le stelle e sentire all’aurora il canto degli uccelli, o al risveglio mattutino, prima della paura e della battaglia gioire del cielo terso, dell’aria frizzante e dei colori nei campi, e se verso la fine della guerra ti raggiungono a sorpresa le note di un violino, in te “è come il risvegliarsi da un brutto sogno”. E poi quegli atti, quelli che sorpassano la guerra- non i corpo a corpo che sono prodromi di truculenta bestialità- i gesti di sacrificio estremo e compassione umana:, il tuo bimbo che lasci scivolare nell’acqua perché il suo silenzio salverà molti dei tuoi compagni, sotto il fuoco trasporti un ferito e trovi rifugio di una buca, lì un soldato tedesco ferito più gravemente del tuo e tu, perché non muoia dissanguato, subito lo fasci; e ancora un’altra lei, trascina alternandoli due feriti ustionati e quando si avvede che uno dei due è in realtà un nemico continua comunque fino a portare entrambi in salvo, e c’è quella mezza pagnotta che metti nelle mani di un prigioniero tedesco- un fanciullo in lacrime affamato che incredulo ti guarda e tu “sei felice di non odiare”; piangi per gli inutili sforzi fatti per portare a riva, nel buio, un ferito che si rivela essere un agonizzante storione gigante, ma in quella vicinanza piangi anche per la “sofferenza che accomuna tutti i viventi”. La guerra non ha un volto di donna è questo quello che il titolo del libro mostra.
Un lettore giustamente ribadisce che i sentimenti di compassione e sacrificio non sono appannaggio esclusivo del genere femminile e nel testo troviamo gesti compassionevoli operati da soldati tradizionali, come del resto la guerra può incidere profonda sofferenza nei reduci senza distinzione di genere. Forse tra loro la differenza è nel provare sofferenza suggerita da mezzi toni o chiaroscuri: la si sente semplicemente notando- in un luogo dove s’è combattuto -affiorare una piccola scarpina di bimbo, oppure nel cercare la bellezza nella quotidianità dentro gli orrori che una guerra dispensa. La donna “non ha sfiducia di ciò che è semplice e umano”, lei non “desidera sostituire alla vita la rappresentazione ideale”.
Tante le considerazioni suscitate nei lettori dalle numerosissime testimonianze tra queste un aspetto non appartenente alla guerra ha incuriosito: la scolarità era più alta della nostra, ovviamente scuola di regime a indottrinamento unilaterale. Da noi all’epoca ci si fermava alla 5^ elementare. Una scuola comune a maschi e femmine, che permetteva poi una totale apertura ad ogni attività lavorativa anche alle donne. Finalmente la parità di genere dunque nel comunismo? Non proprio, non del tutto. Nella famiglia, e nella sessualità tra uomo e donna vigeva ancora una diversità di valori. Lo dimostrano anche queste donne che tornate dalla guerra, e moltissime pluridecorate, ricevono insulti e disprezzo e non riconoscenza. Esse portano disonore nelle case, chissà cosa avranno fatto (sessualmente) in promiscuità per tanto tempo assieme agli uomini! Ed è così che una madre prepara un fagotto e allontana la figlia e una suocera versa lacrime di sconforto, tutte e due temono per altre figlie che difficilmente ora troveranno marito. Si è saputo di un delitto gravissimo perpetrato dallo stalinismo comunista. Stalin continuava a non fidarsi del suo popolo – era il lager e la deportazione correttiva ad attendere quanti fossero ritornati dalla prigionia nazista o per quelli rimasti nel territorio occupato dai Nazisti all’inizio della guerra – e pensare che quei territori erano stati facilmente occupati perché Stalin aveva in precedenza soppresso tutti i migliori Ufficiali del suo esercito. C’era un ordine del padre della Sacra Patria impartito all’inizio della guerra, uccidersi, non dovevi cadere prigioniero e questo anche senza avere la pallottola necessaria per farlo, se vivevi eri un traditore dunque la deportazione e il marchio infamante esteso alla tua famiglia per questo vessata e emarginata..
Ben altra persona è Svetlana Aleksievic, lei ha ascoltato e riportato perché della pazzia della guerra se ne abbia orrore, ma prova affetto per queste donne testimoni ormai di un mondo scomparso, che con purezza d’intenti hanno creduto ciecamente all’utopia socialista “convinte che nella vita ci fosse qualcosa di più elevato della loro stessa vita”. Donne che dentro le linde casette tedesche con tendine, tovaglie bianche e tazzine di porcellana fiorita si chiedevano stupite perché quel popolo avesse voluto andare in guerra … avevano già tutto. Stavano bene!…..era per noi difficile capire da dove venisse tutto quell’odio. Il nostro odio nei loro confronti era comprensibile ma il loro? E quante lacrime e cicatrici la guerra ha differentemente lasciato in ognuna di loro, pur nella ricomposta quotidianità del dopo: il colore rosso bandito in ogni cosa, la carne appesa dal macellaio non si compra, assomiglia troppo a….; i giocattoli di guerra mai a figli e nipoti; il silenzio, la voglia di far sapere perché mai più si ripeta…; gli incubi notturni “io ho potuto uccidere un essere umano?”, “io non vedevo gli uomini mentre li uccidevo. Adesso capisco che li uccidevo lo stesso”; il grande senso di colpa che fa credere di doverla giustamente espiare con la punizione di un innocente, un figlio menomato. E, se orrori e dolori subiti ti fanno dire “non si può diventare subito buoni”, altre invece elargiscono amore perché solo quello conta dopo la guerra… tutti mi facevano compassione persino i galli, i cani. Anche adesso non posso sopportare il dolore altrui. Non manca comunque lo sconforto di chi ha veramente creduto, dopo la tragedia di una guerra vissuta in prima persona, nella nuova bontà dell’uomo ed è amaramente deluso: Nulla è cambiato, le guerre vivono ancora. Per questo le donne a Svetlana parlano, vogliono che da qualche parte nel mondo si conservi il loro grido, il loro lamento e lei l’ha accolto e trascritto per aiutare a desistere al fascino oscuro della guerra, a quella folle assurda e orrida ripetitiva tragica commedia, quella che sempre rivela pienamente chi siamo.
“C’è stato un campo di grano, vi cammina una donna e guarda ragazzi distesi, gli occhi al cielo, le divise diverse …belli e eguali”.E “si dispiaceva per gli uni e per gli altri”
L’autrice cerca dentro la guerra di queste donne l’essenza di ciò che è veramente umano.
Autore
Svetlana Aleksievic è una giornalista bielorussa che ha conseguito il Premio Nobel per la Letteratura nel 2015. Per molti anni ha raccontato ai suoi connazionali gli eventi più importanti dell’Unione Sovietica della seconda metà del XX secolo. Su ognuno di questi eventi ha pubblicato anche libri, e le sue opere sono state tradotte in molte lingue, valendole fama internazionale. Esiliata dal suo paese su comando del Presidente Lukasenko, vive a Parigi.
In Italia sono usciti alcuni dei suoi scritti, tra cui Preghiera per Chernobyl (e/o edizioni, 2002, vincitore del Premio Sandro Onofri per il miglior reportage narrativo) sulle vittime della tragedia nucleare, Ragazzi di zinco (e/o edizioni, 2003) sui reduci della guerra in Afghanistan, Incantati dalla morte (e/o edizioni, 2005) sui suicidi in seguito al crollo dell’URSS, Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo (Bompiani, 2014) e Gli ultimi testimoni (Bompiani, 2016).
Nel 2013 vince il Premio Internazionale per la Pace degli editori tedeschi, ed è indicata come una delle favorite all’assegnazione del premio Nobel per la Letteratura, che vince nel 2015 con la seguente motivazione: “for her polyphonic writings, a monument to suffering and courage in our time”.
Nel 2017 esce La guerra non ha un volto di donna. L’epopea delle donne sovietiche nella seconda guerra mondiale
Per il nostro incontro di lettura di novembre è stato scelto leggere il libro Non lasciarmi, del Premio Nobel Kazuo Ishiguro, un’opera sconvolgente eppure mirabilmente scritta con tono delicato e sommesso, che sottende l’origine nipponica dell’autore. Una tematica forte, addobbata da abiti distopici, inquietante perché non copre una realtà ipocritamente velata che già in qualche modo ci accompagna. La struttura del libro segue linearmente tre tappe di una vita e se all’inizio confonde il lettore, ne tiene desta comunque l’attenzione inserendo sapientemente parole che destano interrogativi su un probabile tragico futuro. La vita di Kathy -io narrante- ma anche di Ruth e Tommy. Tutti personaggi condannati nella stessa storia a un’ esile identità, ma così realisticamente presenti nella commossa vicinanza dei lettori.
C’è un collegio nascosto nella campagna inglese, il “mitico” Hailsham- e lì che troviamo i nostri tre protagonisti ancora bambini: la riflessiva Kathy, l’intraprendente e un po’ leader Ruth, l’ingenuo e reattivo emozionale Tommy. E’ il racconto della loro infanzia fatta di amicizie, dispetti e del forte legame che si creerà tra loro; ci sono poi tanti altri bambini, ma nessuno ha genitori, sono seguiti nel loro crescere da capaci tutori in un ambiente curato e il loro tempo passa tra giochi, studio, sport, e creazioni artistiche – i bambini tutti sono invogliati a farne. Un’infanzia che sembra normale solo che in forma quasi “subliminale” è loro inoculato a piccole dosi fino all’assuefazione totale l’obiettivo speciale del loro vivere.
Kathy e Ruth sono legate da confidenze, ma anche da piccole conflittualità, poi, verso gli 11 anni inizia il legame speciale tra Kathy e Tommy, lei lo comprende e per questo vuole proteggerlo, lui è un po’ diverso- non è creativo e facilmente si arrabbia alle prese in giro degli altri bambini. Nell’adolescenza invece è Ruth che fa “coppia sessuale” con Tommy. Tutti gli “studenti” conoscono presto la sessualità vista come sano esercizio senza conseguenze perché sterili. Ma il legame tra i tre resta forte anche quando a diciotto anni lasciano il collegio per andare a vivere in una specie di “comune per un periodo di due anni”- la stessa per tutti loro. Poi iniziano i cambiamenti e qualcosa si rompe, la prima ad andarsene è Kathy che vuole diventare “assistente”. E’ questa una delle due possibilità del loro futuro: diventare assistenti il che comporta qualche anno di vita durissima e solitaria, fatta solamente di lavoro per divenire alla fine donatore e l’altra in cui lo si diventa subito. Sì, perché tutti dovranno donare i loro organi, loro sono dei cloni creati a questo scopo!Questa è una prassi istituzionalizzata. Nessuno mai si ribella, tutti accettano passivamente il proprio destino. E ’perché sono cloni che non lo fanno, oppure è bastato il plagio educativo?
Ora Kathy fa l’assistente da molto tempo ha trentadue anni e ci racconta come si sia riavvicinata a Ruth, accettando di essere la sua assistente. Ruth alla seconda donazione è già molto grave, aveva rinunciato molto presto a fare l’assistente. Per lei assistere i donatori fino alla chiusura del loro ciclo era troppo gravoso e poi quel faticoso battersi per loro con medici e infermieri per un buon trattamento. Poveri cloni considerati alla stregua di robot inquietano e fanno paura, loro non muoiono chiudono semplicemente il loro ciclo. Prima di chiudere il suo, Ruth che si sente in colpa e desidera fare ammenda si è data il compito di riunire Kathy e Tommy che si sono “amati sin da bambini” e che lei aveva consapevolmente diviso Per questo fa promettere a Cathy di diventare l’Assistente di Tommy, e poi fornisce loro l’indirizzo di Madame perché tentino, loro che si amano veramente, di chiedere quel prolungamento di tre anni –che è diceria e speranza- da vivere liberamente. E loro lo faranno, Tommy disegnerà nuovamente i suoi piccoli originali animaletti da mettere finalmente nella fantomatica Galleria di Madame mostrando la sua anima così vedrà che ama veramente. Ma non si sono mai regalati tre anni per l’amore, e nell’incontro con Madame e Miss Emily Tommy verrà a sapere che tutte le creazioni servivano solo a reclamizzare la buona riuscita dell’etico progetto Hailsham ed avere quindi le sovvenzioni per portarlo avanti. Ormai però Hailsham è stato chiuso, è tutto finito, non ci saranno più dei cloni privilegiati “studenti” come sono stati loro ma cloni allevati come gli altri in modo deplorevole, poco compassionevole. Un solo gesto di ribellione, l’antico urlo infantile di Tommy e poi l’ accettazione. Lui morirà dopo la quarta donazione ma non assistito da Kathy alla quale vuole lasciare solo un bel ricordo. E Kathy è stanca e farà la donatrice, è stata una bravissima assistente, in questo si è realizzata. Ora desidera avere finalmente il suo tempo per i ricordi e sono ricordi belli perché loro tre hanno vissuto, diversamente da molti altri cloni, a Hailsham tra la bellezza della natura e una loro creatività espressione aiutati da una cultura che ha fatto apprezzare pur se in modo lieve le sfumature della vita – come una lettrice leggendo nelle ultime righe del libro ci ha fatto percepire. Kathy era andata a Norfolk quindici giorni dopo la perdita di Tommy, piccolo, mitico paese e luogo designato a raccogliere tutte le cose perdute di un’infanzia felice. E lì che “se avessi aspettato abbastanza una minuscola figura sarebbe apparsa all’orizzonte…era Tommy, lui mi avrebbe fatto un cenno con la mano e forse mi avrebbe chiamata. La fantasia non andò mai al di là e di questa immagine non glielo permisi e sebbene le ….”
C’è dolore in lei ma non disperazione osserva una lettrice, in questa mancanza di pathos, in questi sentimenti così pacati vede l’essenza di quel loro essere cloni, capaci sì di rispondere a impulsi emotivi ma privi di sentimenti forti, il che può spiegare anche la loro passiva accettazione come donatori- potevano muoversi liberamente al cottage, ma nessuno tenta la fuga. Del resto le coppie non conoscevano l’amore, ne imitavano solo i comportamenti appresi dalla TV. Un’altra lettrice invece suppone che l’accettazione passiva alle donazioni sia una forma di consolazione, che la ricerca di quei modelli originari “i possibili da cui è stato ricavato il DNA da cui sono nati” indichi un pensiero di continuità di vita tramite i propri organi riconsegnati ai modelli d’origine. Ma in realtà non è detto che questo succeda e nella ricerca dei possibili che Ruth fa a Norfolk c’è solo il desiderio di vedere la conferma di un futuro che lei stessa nell’adolescenza avrebbe voluto vivere. Sì perché all’inizio dell’adolescenza non erano ancora pienamente consapevoli del loro destino e Ruth sognava di fare l’impiegata, qualcuno l’attore e Kathy di tenere un bimbo tra le braccia che “non la lasciasse”, ciò prima che la subdola educazione li privasse a poco a poco del futuro. Solo donatori d’organi dalla vita breve, e in questa breve vita come i nostri amici si sono dati un senso? Qualcosa si può trovare nel tentativo di Ruth di risarcire Kathy e Tommy, in Kathy nella soddisfazione di aver svolto al meglio e a lungo il suo lavoro di assistente e Tommy in quel continuo creare fino all’ultimo -alla fine per se stesso- i suoi piccoli laboriosissimi ed emozionanti animaletti. Poche cose in queste creature nate senza futuro e senza radici, poi ritrovate solo nel breve sereno passato: la festività del Baratto da cui nascevano le uniche cose scelte e volute le loro ”collezioni”, e le creazioni artistiche- specchi delle loro essere- , ciò ha dato loro un’identità. Hailsham è la loro isola, il loro faro,il paradiso perduto da cui attingere per trovare conforto.
Temi cruciali su cui dibattere: la clonazione e il trapianto d’organi e poi domande erano umani quei cloni? Era giusto a Hailsham averne velato il destino? E’ un susseguirsi nel gruppo di un “è tremendo non si può far questo!” ma siamo tristemente consapevoli che tutto è possibile, in parte è già stato fatto anche se non permesso. Un grande libro “Non lasciarmi” metafora della nostra ipocrisia perché ancora oggi il diverso ovvero il più debole è considerato meno uomo un diseguale da usare per il nostro egoismo.
E come rispondere alla domanda se il clone è una creatura umana, ha “anima umana”. Qualcuno non ne è propriamente convinto, sente i nostri protagonisti manchevoli proprio di quell’energia vitale che spinge oltre l’uomo, per altri invece questa c’è. L’hanno recepita sin dall’inizio in quei comportamenti tipicamente infantili altalenanti tra dispetti e amicizia, nella gelosia e nei sensi di colpa, di redenzione, nella capacità di assaporare la bellezza -la gita alla barca- , nell’interesse per le arti, le collezioni e le piccole creazioni dell’anima per Madame. E ancora nell’amore “ti ho amato per tuta la vita”, nell’urlo di Tommy scatenato dalla disillusione e nella sua delicatezza nel regalare solo ricordi belli. Questi esseri salvano i ricordi, non possono altro dopo il lavaggio sottile e continuo del cervello che impedisce al futuro di far capolino permettendo in sua vece l’annidarsi della passività. Già se non c’è speranza l’energia si acquieta e questa mancanza di futuro li porta sottilmente alla rassegnazione. La stessa rassegnazione si riscontra del resto nelle caste indiane, nella sottomissione femminile in culture maschiliste e anche nei pur “bellicosi ebrei” totalmente passivi nella shoah. Inoltre la crescita collettiva li ha privati delle conoscenze basilari – i modelli familiari affettivi e di coppia- utili, per un relazionarsi affettivo corretto. Eppure loro tre sono riusciti a creare una relazione affettiva vera sebbene la sessualità non sia percepita intrinsecamente legata all’amore. Ma vogliamo anche credere a Madame, lei che ha raccolto le loro anime nella “galleria”, quando li congeda con quel gommoso saluto “povere creature”, lei che li aveva sempre guardati a distanza e con paura diversamente da Miss Emily, che voleva concedere loro solo una vita più dignitosa. Madame già allora aveva colto nel gesto di Kathy bambina, che culla tra le braccia un cuscino sulla melodia di Non lasciarmi la conferma del loro “esser creature” e si era commossa per quello che invece sarebbe stato il suo destino. Miss Emily invece non riesce a credere alla loro capacità di amare.
Ci siamo chiesti poi anche noi se fosse stato positivo l’aver concesso loro un’infanzia come tutti i bimbi che vivono felicemente il presente o se invece sarebbe stato meglio per loro sapere subito la verità come auspicava la tormentata Miss Lucy che non reggeva l’inganno della loro vita e risparmiare loro la disillusione dei loro sogni irrealizzabili. All’unisono si è risposto che in quell’irreversibile situazione era è stato meglio lasciarli vivere un’infanzia serena a Hailsham – banca dei ricordi -da cui attingere conforto nei momenti terminali della loro vita.
Allontaniamo la malinconia pur parlando ancora di donazione di organi, tra noi abbiamo una donatrice vera e non programmata. E’ una realtà ben diversa quella che ha vissuto, è stato un dono il suo, nato da un atto di libera volontà, da un grande gesto di amore generoso.
Autore
Kazuo Ishiguro , scrittore giapponese, è nato a Nagasaki nel 1954 e si è trasferito con la famiglia in Inghilterra nel 1960, dove viene naturalizzato britannico.
Tutti i suoi romanzi sono tradotti in italia da Einaudi: Un pallido orizzonte di colline (1982), Un artista del mondo fluttuante (1986), Quel che resta del giorno (1989 e 2011), Gli inconsolabili (1995 e 2012), Quando eravamo orfani (2000), Non lasciarmi (2006),
Da Quel che resta del giorno (Booker Prize 1989) è stato tratto un celebre film con Anthony Hopkins ed Emma Thompson.
Sua è anche la raccolta di racconti Notturni. Cinque storie di musica e crepuscolo (2009 e 2010).
Nel 2015 esce Il gigante sepolto per Einaudi.
Vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 2017.
Giovedì 5 ottobre il gruppo di lettura ha riflettuto sull’opera in tre racconti di Aleksandr Solzenicyn; opera dura e bella che ci introduce in luoghi a noi poco noti : “Una giornata di Ivan Denisovic” è il primo libro in cui si parla di Gulag staliniani e di cui l’autore ha fatto lunga personale esperienza. Prima tenuti in segretezza. Altro racconto è “La casa di Matrjona”, dove vive una donna povera e vecchia ma dal “volto sereno”, che si rivelerà essere l’unico e incompreso “Giusto su cui si regge il villaggio”. Un antico e remoto villaggio ai margini di un bosco ove i kolchoz collettivi ne ha snaturata l’essenza; il terzo racconto “Accadde alla stazione” ci viene a mostrare, invece, quanto l’ingannevole patriottismo staliniano tolga a un uomo, che pur vuol essere etico, la sua vera obiettiva coscienza.
Un testo dalla scrittura incalzante, le parole precise a renderci un realismo che irretisce portandoci lì, in un mondo sofferto che incute malessere ad alcuni lettori. Ed ecco svegliarci alle cinque di un buio mattino accanto a SC-854 ,- condanna: anni 10 da scontare in campi correttivi di lavoro, otto dei quali già fatti, ora nell’anno 1951 ha quarant’anni – in questo Gulag siberiano attanagliato dal freddo e da spazi circondati da filo spinato. Prima, era un contadino e cittadino sovietico, quale colpa ha commesso? Non si è fatto uccidere per la propria Patria adesso è un “accerchiato” è tornato , questo è l’errore, dopo esser rimasto due giorni prigioniero dei tedeschi. Non è un numero però quello che noi seguiremo in questa lunga faticosa giornata, ma l’uomo Sochov, lottatore, accorto e intelligente nella sua giornaliera sopravvivenza a -30° : il freddo, la fame e la sbobba, l’incubo dell’omicida cella di rigore- non dimenticando mai di essere un uomo; ed ecco lavoretti e servizi onesti per gli altri detenuti; fa il muratore nel lager, lavora bene e quando mangia, si toglie il cappello.
Certo all’interno del campo si muove una gran e diversificata fauna umana: lo sciacallo, il debole, il violento, i corrotti che qualcuno può sempre comprare ottenendo in cambio di lavori al chiuso, indumenti caldi e ì pacchi da casa abbastanza integri. Abbiamo accompagnato Sochov nel buio, tra il bianco e ancora nel buio in una giornata dura che lui, però considera fortunata, nessun inconveniente pericoloso, con un po’ di fortuna e astuzia ha avuto più cibo, il lavoro al chiuso eseguito con soddisfazione, una buona azione ricompensata e del tabacco passabile per la sospirata fumatina serale..e soprattutto un’altro giorno da depennare: sopravvissuto!
Ignatič è un ex prigioniero politico , ora come insegnante seguendo il “sogno di un angolino quieto di Russia”, nel 1956 arriva a casa di Matrjona, un’isba sbilenca e malridotta, ma d’un certo fascino. All’interno, tantissime piante di ficus e sulla stufa lei, sciatta e sofferente che lo accoglie così: “Non so far niente né cucinare, come posso accontentarvi?”. Ma gli occhi dicono cose diverse e Ignatič si ferma. Lì si sente accudito e in una vicinanza sensibile e discreta cresce dell’affetto per questa donna incalzata dalla sfortuna – ha perso sei figli – ma che serena vive nell’altruismo, che altri invece chiamano stupidità, fino a morirne. La piangono sinceramente la figlia adottiva e forse l’infelice cognata che porta il suo nome- tutti gli altri come sempre depredano e irridono. Solo Ignatič ora la vede completamente riconoscendo in lei quell’unico giusto che….
Il terzo racconto è ambientato in una serata di pioggia e vento freddo nella stazione di Kocetovka. E’ tempo di guerra e la stazione è uno snodo ferroviario del cui smistamento è responsabile il giovane ufficiale Zotov – lavoratore indefesso con il grande rammarico di non essere delle combattenti perché porta gli occhiali. E’ un fiducioso figlio del grande Padre protettore della Patria, una brava persona fedele all’amata moglie- meno importante però della Patria- è capace di piccole trasgressioni alle regole per permettere ai soldati affamati che accompagnano un convoglio di recuperare il cibo dovuto. Di buon cuore e idealista è capace di empatia aprendosi a un insolito sincero parlare con quel soldato stranamente abbigliato capitatogli in ufficio privo di documenti che dice d’aver smarrito, in realtà un attore colto dai tratti e modi affabili. Purtroppo un semplice errore toponomastico- quell’uomo non conosce Stalingrado e la chiama con il suo nome antico- porta subito Zotov a insospettirsi, è talmente impregnato nell’ideologia stalinista! Lì transitavano tanti treni di “accerchiati” e colui dunque era “un infiltrato” ? Non può far altro che denunciarlo è cosi che Il nuovo uomo staliniano compie il suo dovere; eppure Zotov per tutta la vita continuerà a chiedersi che fine avesse fatto quell’uomo.
In quest’opera complessiva Solzenicyn denuncia lo stalinismo comunista che rinnega e offusca la coscienza libera e individuale dell’essere umano, però mostra che è ugualmente possibile rimanere fedeli a un umanesimo autentico – benché mescolati a paure, diffidenze e ingiustizie- ; merito della dignità nel lavoro e da relazioni non solo utilitaristiche.
Sono state illuminanti nella discussione le informazioni storiche di quel periodo dateci da chi ha proposto il libro e quelle sulla vita e le opere di Solzenicyn, sulla sua forza e coerenza, il suo credere nonostante tutto nei valori dell’uomo e della sua Russia antica. Una lettrice non si capacita: come mai i russi non colgono la somiglianza tra i lager staliniani e quelli nazisti, loro che per primi erano entrati in quelli dell’orrore nazista. In realtà dei Gulag russi tutti ne sapevano ben poco, anche se questi esistevano ben prima di Stalin ma erano punitivo-correzionali, ma con la sua dittatura s’intensificano diventando anche luoghi di grande sfruttamento economico. Sono molto produttivi e a basso costo, mano d’opera gratis – salario zero o quasi e cibo per sopravvivere. Inoltre ciò che principalmente differenzia i campi di concentramento nazisti da quelli russi, è l’obiettivo: per il nazismo lo sterminio totale degli ebrei, nessuna speranza nei loro campi e nessuna autonomia per gli ebrei, niente dipendeva da essi. Nei durissimi campi staliniani benché vi fosse freddo, fame, lavoro faticosissimo, si moriva di sfinimento e ogni trasgressione aveva conseguenze pericolosissime, non c’erano violenze e tortura gratuite, inoltre rimaneva la speranza,- anche se la pena poteva raddoppiarsi senza sapere il motivo- di uscirne. E poi c’è il lavoro che qui, pur tra regole severe, può essere ancora creativo poiché l’ organizzazione è demandata alle Squadre e ai loro capisquadra; se poi nella squadra si lavora insieme e meglio si possono ottenere quei 200 grammi in più di pagnotta che aiutano a sopravvivere; un lavoro ben fatto – quel muro a filo – rinforza l’interezza dell’uomo e fa passare velocemente il tempo. Chi poi ha un Credo sentito e praticato vive anche nel campo una certa serenità, chi sente solo i valori del suo essere solo persona, pur avendo patito ingiustizia, riesce a conservarli anche in quel mondo nuovo fatto solo di giorni che occupano il tuo fare e trattengono i tuoi pensieri. Il mondo di prima e di fuori, non vuoi e puoi pensarlo, tanto non lo riconosci più. Ma c’è chi ancora qui si toglie il cappello quando mangia e mette una pezzuola – piccola civile tovaglia – sotto il pane, piccole cose eppure importanti, mentre… guarda un po’… chi va a cercar scodelle da leccare più facilmente soccombe!
Anche a Matrjona piace il lavoro,
è la sua valvola di sfogo per dispiaceri e frustrazioni, zappa un orto infruttuoso, raccoglie erba per la sua capra, ruba e trascina in sacchi pesanti dal bosco la torba per riscaldarsi, ed è anche modo di relazionarsi con gli abitanti del villaggio che la emarginano. Lei generosa dona il suo lavoro ma tutti gli altri la usano, persino al Kolchoz che non la vuole perché malata se ne ha bisogno corre a chiamarla e poi non la paga.. Lei non si nega mai…si sposa perché non sa dire di no, lascia smantellare una parte della sua amata isba -“Sapevano che si poteva fare a pezzi anche con lei ancora viva” – perché non sa dire di no ed è per seguire quel legno caricato su malsicure slitte che Matrjona morirà stritolata dal treno. Slitte commissionate al risparmio dallo spilorcio Fadej, cognato e antico e incattivito promesso sposo -è lui che sposa una donna che porta il suo nome- , divenuto ora un vecchio avido che nel lutto di lei e di un proprio figlio pensa solo come recuperare velocemente quel legname rimasto incustodito.
Un lettore si chiede perplesso come sia credibile il farsi sfruttare come Matrjona. Era buona, questo solamente! E benché un ribrezzo unanime ispirassero a noi lettori topi e i tanti scarafaggi che abitavano nella sua casa, lei li accettava perché non facevano del male a nessun essere vivente; amava le piante, la sua gatta zoppa, la capra e pur così povera mai aveva allevato –come tutto il villaggio- un maialino all’ingrasso..Matrjona “era in pace con la propria coscienza”.
Anche nel terzo racconto c’è il freddo –e già alle prime pagine del libro una lettrice raccontava d’essersi infilata le pantofolone con le corna d’alce- un vento gelido, poco da mangiare, abbigliamenti poverissimi , tanta pazienza , qualcuno ha chiesto allora perché la gente non si ribellasse, perché si accettasse tutto. Sempre la nostra documentata lettrice viene a suggerire: “perché sono loro la Russia”, governano loro per loro, “i tanti sacrifici li facciamo per noi “, essi si sentono e credono attori di quel futuro miglioramento comune,questa è la Rivoluzione. Eppure in quella stazione soggiorna anche la diffidenza, l’inautenticità, perché cancellata la sintonia umana e il piacere di un dialogo sincero permane solo il convincimento inderogabile dell’uomo nuovo russo, abbiamo solamente la figura inautentica di chi si riconosce ruolo del Patriota staliniano.
Alcuni lettori dicono di non essere riusciti a portare a termine la lettura di questo libro a causa dell’ansia che provavano, fortunatamente la comune discussione consegnava anche a loro il monito contenuto in quest’opera, bisogna sempre ricordare cosa fanno e la sofferenza che generano i regimi totalitari…tutti!
Autore
nasce da una famiglia discretamente agiata.
Il padre muore pochi mesi prima della sua nascita in un incidente di caccia.
La madre si trasferisce col piccolo a Rostov-sul-Don.
Nel 1924, a causa degli espropri ordinati dal regime, i due si trovano a vivere in condizioni di grande indigenza.
Aleksàndr riesce però a perseverare negli studi, fino al conseguiemento di una laurea in matematica nel 1941.
È in quello stesso anno che si arruola come volontario nell’Armata Rossa e viene inviato sul fronte occidentale. Riceve un’onorificenza.
Nel febbraio del 1945, però, a causa dell’intercettazione di una sua lettera in cui critica duramente l’operato di Stalin, viene condannato a otto anni di campo di concentramento e al confino a vita.
Comincia qui il doloroso pellegrinaggio di Solzenicyn da un lager all’altro.
Nel 1953, nel domicilio coatto di Kok-Terek, nel Kazakistan, gli viene concesso di insegnare.
Descrive quindi tutto nel romanzo Una giornata di Ivan Denisovic (1962) ottenendo sin da subito un ampio riconoscimento internazionale.
Premio Nobel per la Letteratura nel 1970, viene espulso dall’Urss nel 1974 dopo la pubblicazione di Arcipelago Gulag (1973), considerato suo capolavoro.
Ha vissuto negli Stati Uniti dal 1976 ed è tornato in patria solo nel 1994, continuando a svolgere il suo ruolo di intransigente coscienza critica.
Il premio Nobel Heinrich Boll, integerrimo scrittore di temi civili, è l’autore di “L’onore perduto di Katharina Blum”, un piccolo romanzo ideato per essere atto accusatorio della violenza manipolatrice di certa stampa scandalistica promotrice di altra reattiva violenza. Opera particolare dallo stile asciutto, ironico e sarcastico e estremamente oggettivo; la struttura prende la forma documentaria di una cronaca giudiziaria che ci viene presentata da un ignoto narratore. Ciò ha creato inizialmente una certa confusione nei nostri lettori, difficoltà a entrare agevolmente nella trama del libro e poca intimità con i personaggi. Ma questo è un libro che arriva alla testa del lettore per poi coinvolgerne tramite l’etica i sentimenti .
In breve è la storia della giovane Katharina Blum, ottima e seria governante, la quale uccide un giornalista dopo la pubblicazione di alcuni articoli che hanno disonorato e quindi trasformato tutta la sua vita. La donna è coinvolta nella fuga di un comune malvivente (siamo in Germania negli anni ’70, gli anni di piombo del terrorismo rosso) tacciato e creduto un terrorista, un rapinatore e assassino. In verità ha solo scassinato la cassaforte del suo reggimento. L’uomo aveva suscitato in Katharina un fulmineo innamoramento tale da ospitarlo dopo poche ore l’ averlo conosciuto nella sua casa, comportamento per lei inusuale ma lui era “quello che attendeva”. Le conseguenze arrivano presto: un’indagine giudiziaria, il telefono sotto controllo, interrogatori meticolosi e denigratori cui seguono “fughe di notizie” immediatamente pubblicate in un giornale popolare e sensazionalistico che altererà volutamente e ripetutamente la realtà. Manipolando interviste, il giornalista descrive falsamente tutta la sua vita contribuendo anche ad accelerare la morte della madre insinuando poi che fosse successo per il dolore da lei arrecatole. Tante le insinuazioni che trasformeranno, nei lettori Katharina in una terrorista, avida speculatrice, figlia insensibile ai suoi doveri ed anche prostituta. La sua identità viene così stravolta e totalmente distrutta; cominciano le telefonate oscene, arrivano lettere anonime offensive e lei come estrema e giusta autodifesa uccide Totges, l’infamante giornalista. Le diffamazioni per’altro non si fermeranno – vi è sempre un altro “Totges” – con conseguenze dolorose anche per i suoi tenaci e affezionati sostenitori: i signori Blorna suoi datori di lavoro e la madrina e amica Else.
Come è stato già detto i personaggi in quest’opera sembrano e restano lontani cionondimeno la loro lettura indigna e fa riflettere, molto.
Katharina è una grandissima lavoratrice, eccellente e onesta amministratrice. La sua proverbiale scrupolosità mette paura sin dentro le mura del carcere, dove sconterà la sua pena; un carattere, il suo, che non ispira subito simpatia ma ti tiene un po’ a distanza. Parsimoniosa e pignola, tutta di un pezzo in ogni decisione, la cui grande determinazione e sincerità coerente destano però ammirazione. Comincia a lavorare giovanissima lasciando una famiglia disgraziata – cui continua sempre però a dare aiuto – poi un marito deludente e presto abbandonato, lavora indefessamente e con l’aiuto della madrina studia sino a ottenere il diploma di governante domestica. Ora, benvoluta e molto apprezzata dai suoi datori di lavoro, aspetta l’amore vero che accecante e fulmineo si presenta in quella notte con Ludwig Gotten e, sarà per sempre . Lo aspetterà in quegli otto anni di carcerazione, infatti, con lui ha programmato una famiglia e una nuova innovativa attività lavorativa: un ristorante per asporto. Incredibile Katharina malgrado ciò che le è accaduto – l’identità faticosamente costruita, poi perduta e per la quale ha ucciso senza pentimento possiede, come suggeriscono due diverse lettrici, una “speciale” innocenza e la resilienza che le permette di non soccombere di fronte alle gravissime difficoltà della vita. Anche l’avv. Blorna la progegge e rispetta per questo. Chi possiede questa qualità alla fine esce fortificato dalle avversità e per questo Katharina paziente e tranquilla attende l’inizio della sua nuova vita.
Non sarà cosi purtroppo nella famiglia Blorna dove tutto entra in crisi e rovina. Hubert, avvocato ben pagato e di grande successo nel campo immobiliare, e Trude affermata architetto. Sono cosi affezionati e riconoscenti a Katharina per l’encomiabile aiuto dato al loro menage familiare, che le restano sempre affianco portando Hubert a essere l’ avvocato difensore di entrambi gli innamorati . Il Giornale li ha subito bersagliati e usati deviando su di loro l’attenzione – in accordo con il potente industriale Luding-, per salvaguardare e non coinvolgere nel pettegolezzo scandalistico un altro industriale, sedicente amico dei Blorna. E’ questi, infatti, quell’ospite (sposato) misterioso di Katharina, in realtà solo un insistente e respinto corteggiatore. L’autore ci mostra così l’ignobile comportamento di certa stampa legata a chi ha potere. Sporcizia può talvolta recepire l’opinione pubblica e su questa involontariamente fermarsi. Ma torniamo ai Blorna: Trude sta perdendo il suo lavoro, Hubert subisce un grave declassamento nel proprio, le false amicizie si defilano, e vessato al limite della povertà entra in una profonda depressione. Ugualmente accade alla signora Else, amareggiata e molto arrabbiata, il giornale è riuscito a metterla alla berlina fantasticando di fantasmi “comunisti” celati nel suo armadio. E purtroppo ciò che è scritto o detto sempre lascia traccia, ricordiamo che anche ”l’amica gentile” di Katharina ha dei dubbi su lei dopo la lettura del Giornale
Ovviamente nel dibattito molto si è parlato del grande potere mediatico, oggi ancor più esteso e potente di allora – le nuove tecnologie – e di come esso sovrapponendosi alla vita privata delle persone possa creare nell’immaginario degli altri una fittizia e deleteria “verità”. Alcuni lettori riferiscono piccole esperienze personali che confermano l’invadenza dei cronisti e le forti inesattezze negli articoli pubblicati. Abbiamo poi un po’ messo a confronto il giornalismo degli anni ’70 con l’ attuale rilevando e costatando come sempre molta informazione addotti per interessi occulti varie strategie: il silenzio mediatico opportuno e il fomentare la paura e il sospetto frutto di connivenze interessate e a volte disoneste. Certamente non tutta la stampa è cosi si sa però che il mondo editoriale e dei media oggi è proprietà di potenti gruppi economico-finanziari. Le macchine del fango perciò oggi lavorano alacremente per discreditare, grazie al trafugamento di notizie frutto di intercettazioni telefoniche doverosamente controllate dalle istituzioni ma che riguardano quelle cose “intime e private”, che se per Heinrich Boll potevano disturbare solo le orecchie morigerate degli antichi impiegati statali, oggi invece invadono gli occhi e le orecchie di chiunque.
Che cosa possiamo fare allora noi semplici cittadini per non subire e assorbire ogni tipo informazione per riuscire a filtrare le manipolative false verità e i dubbi indotti? Poco? Possiamo solo svolgere un lavoro individuale e personale: confrontare, esercitare il dubbio critico, acquisire conoscenza prestando una scrupolosa attenzione, tutto questo può aiutare a far scelte oculate e a cogliere…..e poi, anzi prima, leggere “L’onore perduto di Katharina Blum”.
Canne al vento del premio Nobel Grazia Deledda, un classico della letteratura, ha catapultato in terra sarda in un mondo arcaico, lontano il Gruppo di lettura. Complice una scrittura, attraente seppure lontana dalla nostra contemporaneità ma attraente pregna di un realismo pieno e insieme magico e la descrizione lirica e poetica di un paesaggio che suscita un tale piacere estetico da volerlo centellinare, con quel pennellare l’ambiente legandolo simbolicamente all’interiorità dei personaggi che lo abitano. Tutto questo è piaciuto molto ai lettori.
La storia, invece, è remota , triste trasuda decadenza e fatalismo. E pensare che in quel mondo, privato da colpe, rimorso espiazione a Efix sarebbe bastato così poco per considerarsi ricco e felice: coltivare il poderetto delle sue padrone e dal tetto bucato la ”notte vedere le stelle”. Caro Efix secco, scuro, curvo dalla fatica, una vita dedicata alle sorelle Pintor, tanto povere da essere votate al nubilato perché nobili senza dote, ormai rassegnate, ripiegate passivamente tra le mura di casa , la chiesa e le feste dei Santi.
Efix provvede a loro, le protegge, è il “servo” di famiglia, è l’uomo oppresso dal senso di colpa per averle rese orfane – ha ucciso involontariamente il loro violento e tirannico padre-. L’uomo l’aveva aggredito per aver agevolato la fuga di Lia – la quarta sorella di cui era segretamente innamorato- verso il continente. Non è stato scoperto e non confessa l’omicidio perché vuole proteggere con il suo “non pagato lavoro” Ruth, Ester e Noemi, per tal motivo non ha potuto espiare il suo peccato. Quando arriva dal continente, il giovane Giacinto è doppiamente felice –va dall’usuraia per potersi comprare una berretta nuova! – egli è il figlio di Lia ed è convinto ci sarà un positivo cambiamento nella casa delle dame Pintor. Così non sarà , Giacinto bello e gentile è un disonesto,’irresponsabile “fanciullo”, non lavora, seduce una ragazza del popolo Grixenda – la poverina rischierà di morire di dolore , sperpera il denaro avuto dall’usuraia dalle scarpette rosse, firma cambiali false, che causeranno la morte per crepacuore di zia Ruth e la vendita dell’ultimo poderetto, inoltre la sua presenza susciterà un’intensa attrazione nella zia Noemi, donna ancor giovane dall’inquietudine cattiva. La sua presenza ha fatto molto male, ma arriverà comunque in lui la maturazione che gli farà comprendere che la salvezza dell’uomo sta nel fare il bene degli altri: è dalla vita di Efix, dal suo esempio d’uomo che è toccato. Efix di contro è arrivato a credere d’aver portato lui il male in casa Pintor come conseguenza del delitto commesso e per il quale decide di fare penitenza, diventando mendicante e accompagnando un cieco per le innumerevoli feste patronali del circondario. Poi arriva il momento in cui si rende conto che la sua colpa andrebbe espiata aiutando ancora la famiglia Pintor, egli continua a sperare che Noemi accetti di sposare il ricco cugino Don Pedrù. E cosi avviene, siamo alla fine del libro e della vita di Efix che, malato e sofferente, si concede di morire solo dopo che Noemi varca la soglia di casa per andare sposa. Sempre umile, discreto – non vuol disturbare – a capo coperto, sullo stuoino dell’androne di casa – cane fedele qual è sempre stato ed eroe gentile di quella vita – finalmente si lascia andare … là, sul muricciolo dell’amato poderetto con “le canne che mormoravano e cantano”.
Nel confrontarci grandissimo apprezzamento si è avuto per le poderose e poetiche immagini della natura sarda – abbiamo riletto alcuni incantevoli brani – ci sono però lettori che hanno sentito le tante descrizioni eccessive.
Gradevoli poi le vivide scenette dei due mendicanti ciechi-finti ciechi che litigano, ci siamo interessati alla lunga festa della Madonna del Rimedio e alla comunanza che mostra con le numerosissime feste patronali in uso in tutto il nostro Mezzogiorno – preghiere d’intercessione e ritrovo collettivo ( ora anche folclore per i turisti)-. Qualcuno ricordando la vita nella campagna di Jane Austin ne faceva un distinguo, altri invece ravvisavano vicinanza dettata dal comune isolamento che genera poi quel bisogno di ritrovarsi collettivo. C’è poi chi ha provato una cupa tristezza nell’antico cimitero dai bianchi fiori d’ ossa , in altri, una fascinosa melanconia, una mesta ammirazione per l’antico portone di casa invaso dalle erbacce o la decadente balaustrata del balcone…decorata di foglie di fiori e di frutti in rilievo.. atmosfere. Ora è tutto fatiscente come la cucina buia e mal riscaldata che trasuda ormai povertà, la chiesa buia e fredda con il dipinto di una giovane Maddalena, l’uso del velo, il lutto che le donne portano e quel loro sedersi nella terra battuta ci ha riportato un passato recente e non ancora dimenticato. Il mondo notturno fantastico, magico abitato “ dai folletti, dalle fate, dagli spiriti erranti “ dispettosi, che incutono paura e rispetto -la casa non va mai lasciata sola di sera altrimenti vi entrano quei misteriosi abitanti-. È fatto notare che si tratta di figure simboliche della nostra parte oscura che la notte sempre favorisce.
I personaggi invece ci sono apparsi così intrappolati incastrati in tradizioni obsolete, superstizioni, nella religiosità gravida di colpa. Il fatalismo imperante – tutto è sempre già deciso dall’alto – non permette il libero arbitrio e trasforma i personaggi nelle simboliche e fragili canne che, muovendosi al vento, (”noi siamo le canne e la sorte è il vento”) si spezzano oppure si rialzano i ma non sono loro a deciderlo. Eppure Efix ha deciso di tornare a casa e Lia ha avuto il coraggio di allontanarsi da quel mondo!
Tra le tre sorelle la nostra simpatia va ad Ester, l’ accogliente, è lei che di nascosto invia la lettera al nipote per invitarlo a venire; irritante è Noemi cui la rassegnazione ha donato “occhi cattivi pieni di lacrime”: lei non ha mai risposto alla lettera di Lia e non avrebbe mai accolto il nipote nella sua casa: è distante, altezzosa con tutti , inquieta, attratta suo malgrado da Giacinto , ma che alla fine sposa – con al collo la splendida collana di granate, perché il fattore economico conta- , sempre con gli occhi cattivi, il cugino Don Pedrù. Il debole Giacinto è un personaggio dal comportamento oltremodo deplorevole, che fortunatamente in extremis si riabilita, lavora sposa Grixenda ma piace solo per il bellissimo elogio che fa a Efix “ Sei tu che mi hai salvato, io voglio vivere come te ….ti hanno cacciato come un cane vecchio… eppure tu le ami di più per questo perché il tuo cuore è un vero cuore d’uomo. Il vero amore è stato il tuo”. Eh! Efix , l’incredibile Efix, qualcuno l’ha definito l’eroe gentile che tutto sopporta, intessuto, dicono, di bene e male- perché lui servo ha alzato gli occhi sulla nobile Lia, perché lui ha ucciso, e non ha confessato ed espiato. Questo piccolo uomo logorato dalla fatica e dal rimorso che se per colpa si prende cura, come servo di casa ama quella famiglia -per lui la sola famiglia-, avrà alla sua morte le lacrime della” buona” Ester che s’affretterà a però a chiudere la porta, perché è deplorevole farsi veder piangere per un “servo”.
Un secolo è trascorso da allora e molto è cambiato, tali immeritate abnegazioni forse non ci sono più. La Sardegna conserva tuttora gran parte della sua naturale bellezza, si cerca giustamente e orgogliosamente di preservarne anche le tradizioni buone. Noi ci auguriamo ancora tanti gentili eroi nella quotidianità delle nostre vite, ma vogliamo credere e sperare che ciò avvenga nella consapevolezza d’essere libere persone – nessun tipo di “fato” che ci sovrasti – che desiderano e decidono il cammino per diventarlo.
Autore
Grazia Deledda, premio Nobel per la letteratura, studiò da autodidatta ed esordi come giornalista su riviste di moda. Incrociando influssi veristi e dannunziani, scrisse romanzi e racconti dalla vena etica in cui è descritta la dura vita quotidiana dei compaesani sardi (Canne al vento, Elias Portolu, Marianna Sirca).