05 Ottobre 2017
Giovedì 5 ottobre il gruppo di lettura ha riflettuto sull’opera in tre racconti di Aleksandr Solzenicyn; opera dura e bella che ci introduce in luoghi a noi poco noti : “Una giornata di Ivan Denisovic” è il primo libro in cui si parla di Gulag staliniani e di cui l’autore ha fatto lunga personale esperienza. Prima tenuti in segretezza. Altro racconto è “La casa di Matrjona”, dove vive una donna povera e vecchia ma dal “volto sereno”, che si rivelerà essere l’unico e incompreso “Giusto su cui si regge il villaggio”. Un antico e remoto villaggio ai margini di un bosco ove i kolchoz collettivi ne ha snaturata l’essenza; il terzo racconto “Accadde alla stazione” ci viene a mostrare, invece, quanto l’ingannevole patriottismo staliniano tolga a un uomo, che pur vuol essere etico, la sua vera obiettiva coscienza.
Un testo dalla scrittura incalzante, le parole precise a renderci un realismo che irretisce portandoci lì, in un mondo sofferto che incute malessere ad alcuni lettori. Ed ecco svegliarci alle cinque di un buio mattino accanto a SC-854 ,- condanna: anni 10 da scontare in campi correttivi di lavoro, otto dei quali già fatti, ora nell’anno 1951 ha quarant’anni – in questo Gulag siberiano attanagliato dal freddo e da spazi circondati da filo spinato. Prima, era un contadino e cittadino sovietico, quale colpa ha commesso? Non si è fatto uccidere per la propria Patria adesso è un “accerchiato” è tornato , questo è l’errore, dopo esser rimasto due giorni prigioniero dei tedeschi. Non è un numero però quello che noi seguiremo in questa lunga faticosa giornata, ma l’uomo Sochov, lottatore, accorto e intelligente nella sua giornaliera sopravvivenza a -30° : il freddo, la fame e la sbobba, l’incubo dell’omicida cella di rigore- non dimenticando mai di essere un uomo; ed ecco lavoretti e servizi onesti per gli altri detenuti; fa il muratore nel lager, lavora bene e quando mangia, si toglie il cappello.
Certo all’interno del campo si muove una gran e diversificata fauna umana: lo sciacallo, il debole, il violento, i corrotti che qualcuno può sempre comprare ottenendo in cambio di lavori al chiuso, indumenti caldi e ì pacchi da casa abbastanza integri. Abbiamo accompagnato Sochov nel buio, tra il bianco e ancora nel buio in una giornata dura che lui, però considera fortunata, nessun inconveniente pericoloso, con un po’ di fortuna e astuzia ha avuto più cibo, il lavoro al chiuso eseguito con soddisfazione, una buona azione ricompensata e del tabacco passabile per la sospirata fumatina serale..e soprattutto un’altro giorno da depennare: sopravvissuto!
Ignatič è un ex prigioniero politico , ora come insegnante seguendo il “sogno di un angolino quieto di Russia”, nel 1956 arriva a casa di Matrjona, un’isba sbilenca e malridotta, ma d’un certo fascino. All’interno, tantissime piante di ficus e sulla stufa lei, sciatta e sofferente che lo accoglie così: “Non so far niente né cucinare, come posso accontentarvi?”. Ma gli occhi dicono cose diverse e Ignatič si ferma. Lì si sente accudito e in una vicinanza sensibile e discreta cresce dell’affetto per questa donna incalzata dalla sfortuna – ha perso sei figli – ma che serena vive nell’altruismo, che altri invece chiamano stupidità, fino a morirne. La piangono sinceramente la figlia adottiva e forse l’infelice cognata che porta il suo nome- tutti gli altri come sempre depredano e irridono. Solo Ignatič ora la vede completamente riconoscendo in lei quell’unico giusto che….
Il terzo racconto è ambientato in una serata di pioggia e vento freddo nella stazione di Kocetovka. E’ tempo di guerra e la stazione è uno snodo ferroviario del cui smistamento è responsabile il giovane ufficiale Zotov – lavoratore indefesso con il grande rammarico di non essere delle combattenti perché porta gli occhiali. E’ un fiducioso figlio del grande Padre protettore della Patria, una brava persona fedele all’amata moglie- meno importante però della Patria- è capace di piccole trasgressioni alle regole per permettere ai soldati affamati che accompagnano un convoglio di recuperare il cibo dovuto. Di buon cuore e idealista è capace di empatia aprendosi a un insolito sincero parlare con quel soldato stranamente abbigliato capitatogli in ufficio privo di documenti che dice d’aver smarrito, in realtà un attore colto dai tratti e modi affabili. Purtroppo un semplice errore toponomastico- quell’uomo non conosce Stalingrado e la chiama con il suo nome antico- porta subito Zotov a insospettirsi, è talmente impregnato nell’ideologia stalinista! Lì transitavano tanti treni di “accerchiati” e colui dunque era “un infiltrato” ? Non può far altro che denunciarlo è cosi che Il nuovo uomo staliniano compie il suo dovere; eppure Zotov per tutta la vita continuerà a chiedersi che fine avesse fatto quell’uomo.
In quest’opera complessiva Solzenicyn denuncia lo stalinismo comunista che rinnega e offusca la coscienza libera e individuale dell’essere umano, però mostra che è ugualmente possibile rimanere fedeli a un umanesimo autentico – benché mescolati a paure, diffidenze e ingiustizie- ; merito della dignità nel lavoro e da relazioni non solo utilitaristiche.
Sono state illuminanti nella discussione le informazioni storiche di quel periodo dateci da chi ha proposto il libro e quelle sulla vita e le opere di Solzenicyn, sulla sua forza e coerenza, il suo credere nonostante tutto nei valori dell’uomo e della sua Russia antica. Una lettrice non si capacita: come mai i russi non colgono la somiglianza tra i lager staliniani e quelli nazisti, loro che per primi erano entrati in quelli dell’orrore nazista. In realtà dei Gulag russi tutti ne sapevano ben poco, anche se questi esistevano ben prima di Stalin ma erano punitivo-correzionali, ma con la sua dittatura s’intensificano diventando anche luoghi di grande sfruttamento economico. Sono molto produttivi e a basso costo, mano d’opera gratis – salario zero o quasi e cibo per sopravvivere. Inoltre ciò che principalmente differenzia i campi di concentramento nazisti da quelli russi, è l’obiettivo: per il nazismo lo sterminio totale degli ebrei, nessuna speranza nei loro campi e nessuna autonomia per gli ebrei, niente dipendeva da essi. Nei durissimi campi staliniani benché vi fosse freddo, fame, lavoro faticosissimo, si moriva di sfinimento e ogni trasgressione aveva conseguenze pericolosissime, non c’erano violenze e tortura gratuite, inoltre rimaneva la speranza,- anche se la pena poteva raddoppiarsi senza sapere il motivo- di uscirne. E poi c’è il lavoro che qui, pur tra regole severe, può essere ancora creativo poiché l’ organizzazione è demandata alle Squadre e ai loro capisquadra; se poi nella squadra si lavora insieme e meglio si possono ottenere quei 200 grammi in più di pagnotta che aiutano a sopravvivere; un lavoro ben fatto – quel muro a filo – rinforza l’interezza dell’uomo e fa passare velocemente il tempo. Chi poi ha un Credo sentito e praticato vive anche nel campo una certa serenità, chi sente solo i valori del suo essere solo persona, pur avendo patito ingiustizia, riesce a conservarli anche in quel mondo nuovo fatto solo di giorni che occupano il tuo fare e trattengono i tuoi pensieri. Il mondo di prima e di fuori, non vuoi e puoi pensarlo, tanto non lo riconosci più. Ma c’è chi ancora qui si toglie il cappello quando mangia e mette una pezzuola – piccola civile tovaglia – sotto il pane, piccole cose eppure importanti, mentre… guarda un po’… chi va a cercar scodelle da leccare più facilmente soccombe!
Anche a Matrjona piace il lavoro,
è la sua valvola di sfogo per dispiaceri e frustrazioni, zappa un orto infruttuoso, raccoglie erba per la sua capra, ruba e trascina in sacchi pesanti dal bosco la torba per riscaldarsi, ed è anche modo di relazionarsi con gli abitanti del villaggio che la emarginano. Lei generosa dona il suo lavoro ma tutti gli altri la usano, persino al Kolchoz che non la vuole perché malata se ne ha bisogno corre a chiamarla e poi non la paga.. Lei non si nega mai…si sposa perché non sa dire di no, lascia smantellare una parte della sua amata isba -“Sapevano che si poteva fare a pezzi anche con lei ancora viva” – perché non sa dire di no ed è per seguire quel legno caricato su malsicure slitte che Matrjona morirà stritolata dal treno. Slitte commissionate al risparmio dallo spilorcio Fadej, cognato e antico e incattivito promesso sposo -è lui che sposa una donna che porta il suo nome- , divenuto ora un vecchio avido che nel lutto di lei e di un proprio figlio pensa solo come recuperare velocemente quel legname rimasto incustodito.
Un lettore si chiede perplesso come sia credibile il farsi sfruttare come Matrjona. Era buona, questo solamente! E benché un ribrezzo unanime ispirassero a noi lettori topi e i tanti scarafaggi che abitavano nella sua casa, lei li accettava perché non facevano del male a nessun essere vivente; amava le piante, la sua gatta zoppa, la capra e pur così povera mai aveva allevato –come tutto il villaggio- un maialino all’ingrasso..Matrjona “era in pace con la propria coscienza”.
Anche nel terzo racconto c’è il freddo –e già alle prime pagine del libro una lettrice raccontava d’essersi infilata le pantofolone con le corna d’alce- un vento gelido, poco da mangiare, abbigliamenti poverissimi , tanta pazienza , qualcuno ha chiesto allora perché la gente non si ribellasse, perché si accettasse tutto. Sempre la nostra documentata lettrice viene a suggerire: “perché sono loro la Russia”, governano loro per loro, “i tanti sacrifici li facciamo per noi “, essi si sentono e credono attori di quel futuro miglioramento comune,questa è la Rivoluzione. Eppure in quella stazione soggiorna anche la diffidenza, l’inautenticità, perché cancellata la sintonia umana e il piacere di un dialogo sincero permane solo il convincimento inderogabile dell’uomo nuovo russo, abbiamo solamente la figura inautentica di chi si riconosce ruolo del Patriota staliniano.
Alcuni lettori dicono di non essere riusciti a portare a termine la lettura di questo libro a causa dell’ansia che provavano, fortunatamente la comune discussione consegnava anche a loro il monito contenuto in quest’opera, bisogna sempre ricordare cosa fanno e la sofferenza che generano i regimi totalitari…tutti!
Autore
nasce da una famiglia discretamente agiata.
Il padre muore pochi mesi prima della sua nascita in un incidente di caccia.
La madre si trasferisce col piccolo a Rostov-sul-Don.
Nel 1924, a causa degli espropri ordinati dal regime, i due si trovano a vivere in condizioni di grande indigenza.
Aleksàndr riesce però a perseverare negli studi, fino al conseguiemento di una laurea in matematica nel 1941.
È in quello stesso anno che si arruola come volontario nell’Armata Rossa e viene inviato sul fronte occidentale. Riceve un’onorificenza.
Nel febbraio del 1945, però, a causa dell’intercettazione di una sua lettera in cui critica duramente l’operato di Stalin, viene condannato a otto anni di campo di concentramento e al confino a vita.
Comincia qui il doloroso pellegrinaggio di Solzenicyn da un lager all’altro.
Nel 1953, nel domicilio coatto di Kok-Terek, nel Kazakistan, gli viene concesso di insegnare.
Descrive quindi tutto nel romanzo Una giornata di Ivan Denisovic (1962) ottenendo sin da subito un ampio riconoscimento internazionale.
Premio Nobel per la Letteratura nel 1970, viene espulso dall’Urss nel 1974 dopo la pubblicazione di Arcipelago Gulag (1973), considerato suo capolavoro.
Ha vissuto negli Stati Uniti dal 1976 ed è tornato in patria solo nel 1994, continuando a svolgere il suo ruolo di intransigente coscienza critica.