L’attentato di Yasmina Khadra

07 Aprile 2016

L’attentato è l’opera di Yasmina Kahdra – pseudonimo dell’autore algerino Mohamed Moulessehoul – che il gruppo lettura ha dibattuto giovedì 7 aprile, molto interessato e turbato per i vicinissimi e tragici fatti di Bruxelles. Un’attenzione particolare  per questo  testo  che ci permette, attraverso  la  tragedia che investe la vita di Amin,  di cogliere con chiarezza visiva e psicologica  il dispiegarsi di durissime e imparziali spiegazioni sul terrorismo  in un  mondo che non conosciamo: la Palestina.

Amin Jaafari vive a Tel Aviv, è di origine palestinese ma  splendidamente integrato in Israele quale stimato e quotato chirurgo. Lo è diventato perseguendo il sogno del padre  –commovente l’immagine del padre morente che tiene tra le mani la laurea dell’unico voluto figlio – e il suo, percorrendo una strada lunga e aspra    aiutato dalla sua l’intelligenza  e da una  forte  ma “rassicurante” determinazione. Felice della sua vita accanto all’amatissima moglie Sihem, lavora all’ospedale,  ha accettato pienamente il  suo nuovo  mondo d’adozione. Questa vita è travolta da  un attentato terroristico – in un ristorante restano uccisi diciassette ragazzi –  perché l’attentatrice imbottita d’esplosivo è Sihem,  sua moglie. Non  vuole crederlo, lei non avrebbe mai fatto del male ad alcuno,  lo amava, aveva tutto!   D’improvviso il mondo in cui credeva crolla,  ora  gli si rivolta contro minaccioso, solo i cari amici di sempre  lo sostengono e proteggono con generosa e ostinata affezione. L’arrivo tardivo di una lettera di Sihem – poche parole –  lo inchioda  nell’incubo. Ossessive domande – Chi è riuscito a trasformare sua moglie in un mostro? E’ anche colpa sua per non  aver colto i segnali d’aiuto di  lei? Deve cercare  risposte. Inizia così  il suo peregrinare nella rischiosa   terra natale: Betlemme, Gerusalemme  e la rovinosa Jenin. Pellegrinaggio doloroso e pericoloso; egli vede cose che non riusciva e non aveva voluto mettere a fuoco, ha ascoltato  ma non accetta ugualmente le estreme scelte di morte  del suo popolo e di sua moglie. Rimarrà  ucciso, con altri civili  in un altro attentato,  da un missile israeliano guidato da un drone. Cercava la cugina Faten, egli muore perché vuol salvare.

Libro scritto benissimo, immagini abbaglianti – la ciclicità del’evento che da inizio e poi conclude il libro. Esterne e interne descrizioni avvincenti. Personaggi e situazioni che ti trattengono, vuoi anche tu, lettore, capire, sapere  perché si lasci un mondo familiare e sereno per compiere un gesto insensato e crudele. Poi l’insistente  tormentoso andare di Amin ci pennella un mondo,  misero, fatiscente,  rovinoso, povero che va sgretolandosi. Violento da ambo le parti, vi circolano  disprezzo e paura  – da un lato il forte e prevaricatore esercito israeliano e dall’altra parte un’onnipresente mescolanza esplosiva di  rabbia e odio. In questo mondo si salva la grande  coesione familiare, abbiamo notato  come vi sia ancora un’affettività allargata nello spazio e nel tempo  – la mostra  l’accoglienza per il ritorno del figliol prodigo Amin  – che da noi occidentali ormai è stata riposta da tempo.  Vi si trova  spesso,  per noi raccapricciante, il  leitmotiv  “orgoglioso d’essere vedovo di una santa martire, esempio altruistico per gli altri che la seguiranno” che pero Amin ripetutamente rifiuta.  Lui,  dai  sofferti contatti e sguardi  che hanno chiarito i perché di sua moglie e di tanti del suo popolo,  ha una nuova certezza per sé:  “Ridefinire l’ordine delle cose ma senza avere la sensazione di contribuire a qualcosa di supremo”;  ora con gli occhi non più stravolti dal suo sogno riconferma che “vuole vivere rivolto alla vita e alla salvezza di chi col suo lavoro può strappare alla morte”, questa per lui  non potrà mai essere, come per i terroristi,  “un fine in sé”.  Aborrisce quello che ora riesce a riconoscere negli occhi di Sihem  quando l’aveva salutato , uguale a quelli di  Abel e Wissan oggi,  quel ”distacco dalla vita, quell’essere già morti”.  A  questo conduce  quella scelta  che  impone il  sacrificio della propria vita e l’omicidio d’innocenti, per riavere la dignità  e  una  gloria che  disprezzo, miseria e umiliazione hanno annullato e che quell’atto riscatta. “Perché non c’è categoria peggiore dell’umiliazione…. è solo per questo che dopo aver vissuto disperato .. rinchiuso in un ghetto, che si sceglie  l’onore morendo”.  Anche a lui hanno tentato di far provare   lo stesso odio,  la rabbia  cui l’umiliazione conduce,  ma benché umiliato Amin non prende  e non usa la pistola che il miliziano gli porge. Sihem sì. Gli si è detto che è morta per il suo popolo,  che  era il prezzo della libertà,  perché per lei la vita con lui era come un caso di coscienza, guardavano in  direzioni diverse, lei  non voleva vivere un sogno che non era il suo, voleva essere degna di sé. Amin ora sa,  intuisce anche  che in lei  è sempre albergato, sopito, quell’odio esplosivo e capisce che le dure prove di ogni vita palestinese l’avevano così sfinita  che non era più riuscita a levarsi. Lui  ce l’aveva fatta grazie alla    sua  professione: salvando la vita, dignità e orgoglio  erano stati raggiunti. Non  c’è odio in  lui e  non può legittimare il gesto omicida di sua moglie. Si erano amati molto e lui lo sa, però nasce in lui, la gelosia, il dubbio della possibile relazione tra Sihem e suo nipote Abel. Alcuni lettori  sentono come una brutta caduta di stile    le parole  pronunciate da Amin “adesso il mio onore risulta intatto”, e il sollievo   per le rassicuranti parole dell’offeso e incredulo  Abel ce lo   rimpiccioliscono. Ma possiamo seguire anche chi ci dice che  quelle parole vanno a dare certezza e salvano agli occhi di Amin un’importante  passata realtà, gli anni felici di un matrimonio, ascoltiamo dalle sue  parole  “non voglio rinunciare alla felicità che mi ha reso amante, marito, padrone e schiavo.. non voglio sotterrare il sogno che mi ha fatto vivere come non vivrò mai più”.

Tra i brutti incontri voluti da Amin  un risalto negativo ha Marwan, il “santo” sceicco,  per la grettezza, lo sprezzante e totale rifiuto di tutto ciò che non è fervente e  devoto “islamico”. Altra cosa  del pacifico e positivo incontro, sempre in  terra palestinese, con il vecchio ebreo eremita Zeev che  si fa riconoscere attraverso i versetti di Isaia  “che m’importa dei molti vostri sacrifici  -dice il signore –io li odio“. Tra di loro è un ritrovarsi   parenti perché “ogni ebreo di Palestina è un po’ arabo   e del resto ogni arabo di Israele è un po’ ebreo”. Importante sarebbe “liberare il buon Dio, da troppo tempo ostaggio delle nostre bigotterie” e ripristinare il buon senso.  Un buon senso che ancora non riesce a insinuarsi tra le pieghe del  conflitto israeliano –palestinese,  che   ormai  perdura da quasi settanta anni! In cui c’è solo il continuo  rincorrersi ossessivo di sopraffazione, paura, odio e violenza. Fermiamoci però un attimo  per  ricordare  che la proclamazione dello Stato d’Israele  in terra palestinese è  avvenuta nel 1949  ed è stato visto dai palestinesi come “un atto di forza intollerabile” un sopruso  e, una prepotenza l’espulsione dei palestinesi   dai loro territori.

Essi  ancor oggi  vivono in  paese povero, lacerato  da sofferenze ingiuste.  Atti  terroristici  contro civili inermi continuano a infliggersi  le due  le parti,  transitano tra  i due territori, sempre spaventevoli e ingiustificabili. Se ne comprende però  la matrice nazionalista, sociale ed economica, che la  religione consolida senza esserne l’aspetto fondante, essa porta a giustificazione  un tentativo di riscatto  attestando e fomentando la gloria dei “martiri”. Il giovane rais incontrato da Amin ben ci spiega le differenze  con gli altri:  quello islamista  vuole uno stato sovrano teocratico e quello jihadista integralista che  vuole l’umma la quale congloba tutti i paesi islamici negando ogni nazione siano esse  laiche o teocratiche, perché l’Islam integralista è abbandono a una fede, a una religione, a un paese e a una cittadinanza.

Il dibattito  si è mosso tra paure recenti, esperienze di viaggio  – dove vengono descritti  palestinesi  dallo sguardo sospettoso quasi “invidioso” –   si è articolato fra dubbi , timori,  desiderio di eticità,  altruismo chiusure  e nostre responsabilità . Ci siamo chiesti   in modo semplice , tra noi,  perché qui il  terrorismo che a   balzi improvvisi  ci colpisce e ferisce  in questa  nostra casa Europea?  Siamo colpiti da  chi si pensava già essere nostri coinquilini! Forse ci aiuta un pochino  la  recente indagine pubblicata dal giornale Repubblica: L’identikit dei  foreign fighters, ci dice  che di questi giovani cittadini europei arruolatisi  nel neonato Stato Islamico –riportiamo  alcuni spezzoni –  solo in pochi lo fanno per motivi religiosi,  sono,  infatti, “una nuova generazione meno educati dai precetti religiosi” ma lo fanno “per i soldi e per ritrovare un’identità e un ruolo che hanno smarrito”. “Non sembrano spinti  da una precisa ideologia politico-religiosa— sono per lo più ragazzi che vivono alla periferia di una big  society europea razzista e islamofoba senza futuro —risultano suscettibili all’interpretazione di un Islam radicale che rifiuta il concetto di cultura, che gli permette di ricostruirsi da sé– ..odiano la reale o percepita immaginazione di una società che li ha rigettati”. Anche qui , eccolo lo “status d’eroe”,    la ricerca di una realizzazione di sé   che si  ripete  e che nasce da una emarginazione sociale, la mancanza di una riuscita integrazione.  Certamente  molte sono nostre  colpe, vicine e lontane ma un pensiero sfiorandomi  mi fa intravvedere  una possibile, forse esile e lontana, concausa   anche in quella  cultura “fatalista”, che impone  all’obbedienza, alla legge  che è totale abbandono alla volontà di un Signore che può  limitare l’iniziativa individuale personale  attraverso la quale le reali possibilità umane sono perseguite.

 

Autore

Yasmina Khadra è lo pseudonimo di Mohamed Moulesshoul (1956), scrittore algerino che è stato ufficiale dell’esercito algerino poi auto-esiliatosi in Francia, una volta preso congedo.

Tradotto in una ventina di paesi, viene considerato  tra i più significativi della cultura araba.

L’attentato è un libro del 2016, dal quale è stato tratto il film di Ziad Doueiri.


Genere: romanzo